Berlinguer agli intellettuali parlava anche di austerità

17 Agosto 2014
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Pubblichiamo uno stralcio del discorso al Convegno degli intellettuali del 1977 sulla “politica di austerità e di rigore”. Il testo intgrale si può leggere sul blog  il Post del  27 agosto 2010

Da che cosa è nata, da che cosa nasce l’esigenza di metterci a pensare e a lavorare attorno ad un progetto di trasformazione della società che indichi obiettivi e traguardi tali da poter e dover essere perseguiti e raggiunti nei prossimi tre-quattro anni, ma che si traducano in atti, provvedimenti, misure, che ne segnino subito l’avvio?

Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.

L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.

Ecco, in base a quale giudizio il movimento operaio può far sua la bandiera dell’austerità?

L’austerità è per i comunisti lotta effettiva contro il dato esistente, contro l’andamento spontaneo delle cose, ed è, al tempo stesso, premessa, condizione materiale per avviare il cambiamento. Cosi concepita l’austerità diventa arma di lotta moderna e aggiornata sia contro i difensori dell’ordine economico e sociale esistente, sia contro coloro che la considerano come l’unica sistemazione possibile di una società destinata organicamente a rimanere arretrata, sottosviluppata e, per giunta, sempre più squilibrata, sempre più carica di ingiustizie, di contraddizioni, di disuguaglianze.

Lungi dall’essere, dunque, una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale, attraverso cui lotta per affermare, nelle condizioni di oggi, i suoi antichi e sempre validi ideali di liberazione. E infatti, io credo che nelle condizioni di oggi è impensabile lottare realmente ed efficacemente per una società superiore senza muovere dalla necessità imprescindibile dell’austerità.

Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate.

Abbiamo richiamato in altre occasioni e anche di recente le profonde ragioni storiche, certamente non solo italiane, che rendono obbligata, e non congiunturale, una politica di austerità. Sono ragioni varie, ma occorre ricordare sempre che l’evento più importante i cui effetti non sono più reversibili, è stato e rimarrà l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali che si vengono liberando dalla soggezione e dal sottosviluppo a cui erano condannati dalla dominazione imperialistica. Si tratta di due terzi dell’umanità, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e paesi che hanno finora dominato la vita mondiale.

Assai vario e complesso è, certo, questo moto. Grandi sono le differenze storiche, economiche, sociali, culturali, politiche, che esistono tanto all’interno di quel che suole chiamarsi il Terzo mondo, quanto nei suoi rapporti esterni. In particolare, negli ultimi tempi si è venuta precisando una tendenza verso alleanze tra i gruppi dominanti dei paesi capitalisticamente più sviluppati e quelli di certi paesi in via di sviluppo, alleanze che operano a danno di altri paesi più poveri e più deboli, e contro ogni movimento popolare e progressista. Non sono stati e non sono solo i Kissinger, ma anche gli Yamani (avrete visto le recenti dichiarazioni) che hanno perseguito e perseguono una politica di ostilità contro gli Stati e contro le forze politiche che si battono per il rinnovamento del proprio paese, comprese le forze avanzate del movimento operaio dell’occidente.

Ma mentre dobbiamo saper cogliere queste differenze all’interno del Terzo mondo, e tenerne conto, non dobbiamo mai perdere di vista il significato generale del moto grandioso di cui sono stati e sono protagonisti quei popoli: un moto che cambia la rotta della storia mondiale, che sconvolge via via tutti gli equilibri esistiti ed esistenti, e non soltanto quelli relativi ai rapporti di forza su scala mondiale, ma anche gli equilibri all’interno dei singoli paesi capitalistici. È questo moto, o almeno è principalmente questo moto, che, operando nel profondo, fa esplodere le contraddizioni di una intera fase dello sviluppo capitalistico post-bellico, e determina in singoli paesi condizioni di crisi di gravità mai raggiunta. E se può accadere, come ci è dato di constatare, che all’interno del mondo capitalistico alcune economie più forti possono trarre profitto dalla crisi e consolidare la propria posizione di dominio, per altri paesi economicamente più deboli, come l’Italia, la crisi diventa ormai un rotolare più o meno lento verso il precipizio.

Sullo sfondo di questa acuita conflittualità tra i paesi e i gruppi capitalistici, mal celata da fragili solidarietà, avanzano processi di disgregazione e di decadenza che, mentre rendono sempre più insopportabili le condizioni di esistenza di grandi masse popolari, minacciano le basi stesse, non solo dell’economia, ma della nostra stessa civiltà e del suo sviluppo.

Non è necessario descrivere i mille segni in cui si manifesta questa tendenza che ferisce e mortifica così profondamente anche la vita della cultura. Quel che deve essere chiaro a chiunque voglia intendere le ragioni ed i fini della nostra politica, sia all’interno del nostro paese, sia nei rapporti con forze progressiste di altri paesi, è che essa si può tutta ricondurre allo sforzo di mobilitazione e di ricerca per bloccare questa tendenza e per rovesciarla.

Viviamo, io credo, in uno di quei momenti nei quali – come afferma il Manifesto dei comunisti – per alcuni paesi, e in ogni caso per il nostro, o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla rovina comune delle classi in lotta»; e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un paese.

Ma una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.

Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, ne deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.

Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo cosi ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.

Proprio perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata, dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E se possiamo ammettere – dobbiamo ammettere, anzi – che vi sono state e vi sono a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle forze che dirigono il governo del paese.

1 commento

  • 1 francesco
    18 Agosto 2014 - 17:41

    Un plauso al direttore di questo blog per aver richiamato questa riflessione di Enrico Berlinguer che riprende una categoria diventata invisa a certa sinistra politica ed ad un incerto e confuso sindacalismo. Anche io qualche anno fa ebbi modo di richiamare la categoria dell’ austerità di cui parlava Berlinguer. Ricevetti aspre reprimeda da alcuni “compagni”. Non ebbi difficoltà a capire che le stesse nascevano da una visione sociale ormai profondamente calata nel consumismo di stampo capitalistico e nel sostanziale rifiuto di una società che con l ’sausterità programma sè stessa e muta segno alla società stressa. Ormai il berlusconismo ( ma si legga pure renzismo) ha minato le prospettiva di lotta e ne ha fiaccato la forza politica e morale. Ecco perchè richiamare il concetto di austerità in Berlinguer è atto politicoaltamente benemerito.

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