Le sfide del presidente Obama

6 Novembre 2008
2 Commenti


Gianluca Scroccu

Abbiamo vissuto una notte storica. L’elezione alla Presidenza degli Stati Uniti di Barack Hussein Obama (già quel nome, che evoca paure e fantasmi, è stato esorcizzato) è una di quelle svolte che segnano i tempi e che ricorderemo. Non importa se il suo mandato non sarà sempre all’altezza o si ritroverà a dover dare risposte impopolari (l’eredità che gli lascia il signor GW Bush, il peggior presidente della storia USA, è veramente disastrosa): ieri abbiamo capito che il popolo può esercitare ancora il suo diritto di scegliere, a partire dal candidato che appariva come il più improbabile per la vittoria proprio per il colore della pelle.

C’è chi ha detto che Barack è diventato famoso solo perché ha venduto abilmente la sua storia (infatti ha già scritto due libri autobiografici nonostante la giovane età). Può darsi, ma la sua è veramente una storia che vale la pena di raccontare. Obama era un outsider sino al 2004. Nato ad Honolulu nel 1961, da madre bianca del Kansas e padre nero del Kenya, è vissuto in Indonesia per poi tornare negli Stati Uniti, prima nelle Hawaii e poi a Chicago, poco più che adolescente. Un afroamericano cresciuto quindi sulla base di un incrocio continuo di esperienze e di una continua contaminazione di culture, anche se le radici africane sono rimaste come tratto segnante della sua vita (basta leggere il suo libro “I sogni di mio padre”). Si laurea in legge ad Harvard nel 1991, dove diviene anche direttore, il primo nero anche qui, della prestigiosa “Harvard law review”, per poi tornare a Chicago a lavorare come avvocato per i diritti civili, organizzatore di movimenti per la registrazione per il voto e insegnante di diritto costituzionale all’Università. La sua carriera politica comincia nel 1996, quando viene eletto nel Senato dell’Illinois. Tenta la corsa al Congresso nel 2000, ma non ottiene la nomination democratica. Nel 2004 si ripresenta per il Senato e diviene il primo senatore nero della storia. E proprio nel 2004 la sua stella inizia a brillare quando viene chiamato a pronunciare il keynote speech alla convention democratica di Boston del 2004 che quell’anno incoronò John Kerry. E’ la svolta della sua carriera: il giovane senatore infiamma la platea e il suo nome inizia a circolare come potenziale candidato.
E la candidatura arriverà ufficialmente nel 2007, per passare al vaglio di primarie molte combattute (lezione per il centrosinistra nostrano), specie con la sua antagonista, Hillary Clinton, che poi non rinuncerà ad impegnarsi con lealtà in  queste settimane di campagna con un sincero sostegno. Sino ad arrivare al 4 novembre, quando  circa il 52% degli americani lo sceglierà come Presidente, facendogli stravincere la sfida per la conquista dei grandi elettori. 62 milioni di americani che lo hanno scelto, incrementando i voti democratici di ben tre milioni di unità rispetto al risultato riportato da John Kerry nel 2004, con  l’apporto decisivo di giovani, donne, afro-americani,  ispanici, e tantissimi  “nuovi” elettori recatisi per la prima volta alle urne.
Se fa sorridere il gretto provincialismo della politica italiana rispetto all’elezione di Obama (ridicole e imbarazzanti nella loro pochezza le dichiarazioni ai tg nazionali), è innegabile come da ieri ci siano molte aspettative sul nuovo presidente e su quello che farà. Basta leggere questo passo del discorso con cui ha salutato i suoi sostenitori a Chicago dopo la vittoria, elencando le categorie sociali che lo hanno portato alla Casa Bianca: “E’ la risposta che viene dai giovani e dai vecchi, dai ricchi e dai poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, indigeni americani, gay, eterosessuali, disabili e no” . La sua candidatura, infatti,  non è nata nei corridoi di Washington, come anche lui ha ricordato, ma dal sostegno della base, che ha costruito poco a poco tutto quanto con piccole donazioni che si sono moltiplicate col tempo, specie grazie alla spontanea mobilitazione di giovani, attraverso Internet e la tv, che volevano scuotersi dall’apatia di questi anni.
In un’America squassata dalla più grave crisi finanziaria dal 1929 ad oggi, Obama non si è tirato indietro e ha saputo indicare una via d’uscita alla classe media e medio-bassa anche attraverso un recupero di alcuni principi roosveltiani e keynesiani. Prendiamo sempre un passo dal discorso di ringraziamento agli elettori: “Se questa crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, è che non è possibile che Wall street prosperi mentre Main street soffre”. Un cambiamento significativo, dopo che per otto anni ci eravamo abituati alla totale sinergia tra l’amministrazione Bush (in particolare attraverso il vicepresidente Cheney) e una classe manageriale totalmente scissa dai principi dell’etica che dovrebbero regolare l’economia e favorire la declinazione di un capitalismo costruito secondo regole democratiche e trasparenti,  a partire dal sistema dell’informazione.
Un’elezione, quella di Barack,  che ha assunto un profilo globale, perché mai nella storia l’avvento di un nuovo presidente USA era stata accolta dal giubilo di tanta gente un po’ in tutti i continenti. Mai una campagna elettorale aveva appassionato tanti cittadini del mondo, mai si erano viste tante scene di commozione e speranza in tutte le latitudini. Obama ha vinto alla grande, anche se bisogna riconoscere l’onore delle armi a John Mc Cain, un conservatore che certamente non era il peggiore dell’establishment repubblicano, almeno sul piano della moralità personale e che certamente sopravanza di tanto  GW Bush (l’unica cosa che ci amareggia è che forse sarebbe stato più bello se Obama avesse stracciato proprio il presidente in carica).
Ci accorgeremo nei prossimi anni della forza  e delle potenzialità di cambiamento che potrà avere questo giovane presidente con origini afroamericane, con una moglie e figlie nere. A proposito, teniamola d’occhio, Michelle Obama. Una donna intelligente, colta, elegante,  nata in  un sobborgo di Chicago,  cresciuta grazie ai sacrifici dei suoi genitori che lavoravano giorno e notte per garantire un’istruzione di primo livello a lei e al fratello. La futura first lady è così passata con dignità dai ghetti al conseguimento di due lauree in due atenei prestigiosi, Harvard e Princeton, dove discusse una tesi eloquente già dal titolo: I neri istruiti di Princeton e la comunità nera.  Avvocato di valore, Michelle è consapevole degli sforzi che hanno dovuto fare i neri americani per arrivare sino al riconoscimento dei loro diritti, passando per gli autobus di  Montgomery e il messaggio pacifista del reverendo King. E sarà una first lady che potrà avere un grande ruolo sullo scenario internazionale, specie nell’avvicinare i paesi più poveri e far sentire il mondo più unito e meno diseguale. Temi che saranno al centro di questi quattro anni.
Per capirlo basta  rileggere l’importante discorso sul razzismo che Obama pronunciò a Philadelphia il 18 marzo di quest’anno, e dove la questione razziale viene affrontata con senso di responsabilità (non la si supera con la violenza, dice Obama) ma non per questo viene  nascosta o negata. Disse il nuovo presidente in quell’occasione: “La rabbia non è produttiva, anzi, troppo spesso distrae l’attenzione dal risolvere i veri problemi. Ma la rabbia è reale, è potente. Semplicemente desiderare che non ci sia, condannarla senza capire le sue radici può servire solo ad aumentare il baratro di incomprensioni esistente tra le razze.” Capire, comprendere, ragionare per superare gli aspetti negativi della realtà: questa è la filosofia del nuovo presidente USA, evidentemente distante anni luce dall’approccio muscolare di GW Bush.
Nell’immediato saranno i problemi economici ed ambientali a rappresentare la sfida più grande per Obama, che ha promesso di aumentare le tasse dal 15 al 20% per chi guadagna più di 250 mila dollari all’anno, implementare le  misure a sostegno dei ceti medi e medio bassi, garantire l’assicurazione obbligatoria sanitaria per i bambini (per arrivare alla copertura universale), predisporre un piano da 150 miliardi di dollari per la ricerca e la produzione di nuove fonti di energia rinnovabili  e ridurre le emissioni di gas serra (e qui vedremo sicuramente anche il contributo del premio Nobel Al Gore alla nuova amministrazione).
In prospettiva, però, l’attenzione, specie di noi europei,  si concentrerà sulle sue mosse rispetto alle grandi questioni di politica internazionale. Sicuramente si passerà dall’hard power bushiano al soft power di Obama e difficilmente vedremo nuovi Iraq (le truppe dovrebbero essere ritirate in 16 mesi, mentre resterebbe l’impegno in Afghanistan). All’unilateralismo catastrofico dell’attuale presidente vedremo subentrare il principio dell’interdipendenza e un approccio multilaterale destinato quantomeno a raffreddare la temperatura in molte zone calde del mondo (pensiamo solo al fatto che Obama si è detto pronto a sedersi al tavolo anche con l’Iran). Non parliamo, poi, dei rapporti con l’Europa, che deve recuperare il feeling perduto durante gli otto anni di Bush, e delle relazioni improntate ad una maggior ascolto con Russia, Cina, India e Sud America.
Sarà una presidenza che dovrà affrontare molte sfide, quella di Barack Obama. La prima sarà quella di un Partito Repubblicano che si radicalizzerà sempre più, come ha sostenuto anche il premio Nobel per l’economia 2008 Paul Krugman sul “New York Times” (articolo riportato anche da “Repubblica” del 4 novembre). Aspettiamoci infatti un Partito Repubblicano, in minoranza oltretutto sia alla Camera che al Senato, pronto a prendere più la fisionomia di Sarah Palin che quella di Mc Cain (in proposito basta rivedere la storia e le azioni di personaggi come Newt Gingrich durante la presidenza Clinton), e dove bisognerà vedere sino a che punto i neocons arretreranno dalle loro posizioni di potere. Almeno per ora, però, godiamoci questa finestra che si è aperta lasciando uscire quell’aria viziata e malsana che da otto anni si era stabilizzata all’interno della Casa Bianca, allargandosi per il mondo intero.

Tra i volumi più recenti di e su Barack Obama si segnalano:
G. Da Empoli,  Obama. La politica nell’era di Facebook, Marsilio 2008;
MC Cain-Obama, Manifesti per la nuova America, Feltrinelli 2008;
G. Moltedo- M. Palumbo, Barack Obama. La rockstar della politica, Utet 2008;
B. Obama, Sulla razza, Bur Rizzoli 2008;
B. Obama, L’audacia della speranza, Bur Rizzoli 2008;
B. Obama, Yes, We Can. Il nuovo sogno Americano, Donzelli, 2008.

Sulla politica degli Stati Uniti, tra i volumi più recenti, si segnalano in particolare:
J. Nye, Soft Power. Un nuovo futuro per l’America, Einaudi 2005;
M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006, Laterza 2007;
F. Fasce, I presidenti Usa. Due secoli di storia, Carocci 2008;
A. Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Il Mulino 2008;
F. Zakaria, L’era post americana, Rizzoli 2008.

2 commenti

  • 1 Sergio
    6 Novembre 2008 - 18:16

    Grazie Gianluca. E’ interessante analizzare anche le possibili reazioni nel nostro Paese, a parte le tristi scopiazzature di Veltroni ed il suo “se po’ fa”. Come diceva il nostro caro Albertone: “gli americani so’ forti”..pensi che l’elezione di Obama stimoli dunque un cambiamento concreto e incisivo anche qui da noi?

  • 2 Gianluca Scroccu
    6 Novembre 2008 - 19:13

    Caro Sergio, ho appena sentito che Berlusconi ha definito Obama, da Mosca dove si trova in visita, “abbronzato”. Credo dica tutto della politica italiana di adesso. Le dichiarazioni ai tg erano imbarazzanti, sia quelle del centrodestra che del centrosinistra del se pò fa. Al netto delle peculiarità della politica americana, secondo me ci sono delle cose assolutamente interessanti nella sua elezione, prima di tutto il fatto che quella di Obama si è configurata come una candidatura nata dal basso e fuori dall’establishment. Per battere la sclerosi dei partiti italiani e di quelli isolani servirebbe una cosa simile, a patto che il candidato non si creda un manager ma un leader che si pone prima di tutto obiettivi di partecipazione, trasparenza e condivisione. Si muoverà qualcosa? Sarebbe bello, magari in vista delle elezioni europee (a proposito: cosa ne pensi dei futuri rapporti tra Europa e Usa con la presidenza Obama)?

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