Nel Sulcis hanno ucciso anche i santi

1 Luglio 2014
2 Commenti


Andrea Pubusa 

L’altro giorno sono andato a bidda, in paese. Il pretesto? Cogliere un po’ di noci per fare qualche bottiglia di nocino per gli amici. In realtà, per partecipare alla festa del patrono Santu Perdu, molto amato dai miei paesani, credenti e non. Quando ero bambino era una festa rinomata, che richiamava molta gente da tutto l’alto Sulcis. Nuxis aveva una particolarità, era un paese ricco d’acqua e di gore che attraversavano strade e giardini. Si sentiva nell’aria un bel profumo di menta che saliva dagli orti. La chiesa dista un centinaio di metri da “sa cannaredda“, una fonte d’acqua fresca e perenne sul fiume. Is istrangius che venivano con carri dai paesi vicini, potevano così, in occasione della festa, accendere un gran fuoco (su fogadoni) e arrostire ogni ben di dio e sostare e soggiornare giorno e notte. Poi c’erano molte “paradas“, verdi di fascine di mirto, dove si mesceva vino a volontà ed altre bevande, bancarelle d’ogni tipo, torrone, mustacciolus e beni vari di consumo domestico.
Il paese attendeva con trepidazione il 29 giugno perché quello era il giorno in cui le giovani indossavano l’abito nuovo e, dunque, l’uscita dalla messa era una particolare sfilata di “moda”, il momento dei confronti e dei commenti. Era anche il giorno in cui i neofidanzati per la prima volta uscivano insieme. E andavano insieme al ballo. Si ballava in due o tre locali: da Tzia Letizia, al dopolavoro e in un altra rotonda all’aperto. E alla vigilia c’erano is cantadores e i balli sardi in pratz’e cresia. Canti e spari rallegravano le strade.
Poi certo le cose sono pian piano cambiate, ma fino ad una decina d’anni fa c’era molto fermento. Alle paradas si sono sostituiti i camioncini che vendono panini ed altro, c’è stato aggiornamento anche nelle bancarelle dei torroni, sono arrivati i gruppi rock, ma la festa era sempre attesa e santu Perdu, manco a dirlo, veniva sempre onorato a dovere e come merita, su iniziativa del comitato organizzatore. Per molti paesani, andati a cercar fortuna altrove, era il giorno del rientro e dell’incontro. Si riallacciavano così rapporti interrotti dall’emigrazione vicina o lontana. La comunità si ricomponeva.
L’altro giorno invece un silenzio mortifero. A casa mia da qualche anno arrivava un po’ di casino per via di una vicina pizzeria che, d’estate, sistemava tavolini all’aperto. Rompeva, devo ammettere. Ma mi ha rotto ben di più il silenzio assordante dell’altra notte e mi ha creato perfino tormento il sapere che quel giovane che l’aveva aperta con sacrifici e debiti, è andato a lavorare in Brasile con la moglie. Non ce l’ha fatta. 
Alla vigilia della festa con Gianna abbiamo fatto un giro per il paese, or oru de arriu, lungo il fiume (ora, ahime!, tombinato) e poi in su boddeu (via S. Pietro), il luogo di raccolta di una realtà contadina e pastorale tanto tempo fa articolata in is furriadroxius. Passeggiata amara: per strada non abbiamo incontrato nemus, nessuno, proprio nessuno. Non c’era anima viva. Tutti chiusi in casa davanti alla TV. Anche il ristorante Letizia dei miei amici Elio e Lelle, molto rinomato per funghi e non solo, era già chiuso.
Sono stato colto da profonda tristezza. Cos’è un paese che non ha più il suo santo? E’ ancora una comunità? E’ tale un insieme di persone che non ha più la voglia e la gioia di incontrarsi? Che ha perso il gusto della festa? E’ un paese o è un luogo in cui per un accidente capita di vivere nello stesso tempo? Se poi scavi, capisci. Non ci son più contadini, i pastori si contano sulle dita di una mano. Negozietti, chiusi l’uno dopo l’altro sotto la pressione dei centri commerciali. Chiudono le rivendite di ferramenta e materiali edili, assorbiti da Bricoman. Chiusa l’Alcoa, non ci sono più operai. In ogni paese ce n’era un  bel gruppo e, in passato, ha alimentato un robusto partito comunista. Rimangono solo i pensionati, in via d’estinzione. La Sardegna perde così pian piano se stessa. La crisi nel Sulcis è talmente profonda che ormai non c’è più tessuto sociale. E così muoiono anche i santi, perfino santu Perdu, che è il più grande di tutti, uccisi dal gelido profitto, dalla mondializzazione del capitale e della finanza e dalla UE, dallo Stato, dalla Regione. Chi l’avrebbe detto? L’attacco alla classe operaia e al mondo del lavoro uccide anche i santi.

2 commenti

  • 1 Vittore Nieddu Arrica
    1 Luglio 2014 - 20:25

    Bello questo pezzo Andrea! Una sana nostalgia di valori autentici, della propria storia e naturalmente della propria giovinezza. Hanno sradicato una societá agro pastorale sana, che era il nerbo della Sardegna, per poi arrivare alla distruzione di quel tessuto a vantaggio di una assai improbabile industrializzazione.
    Un abbraccio.
    Vittore

  • 2 Piero Pintore
    11 Luglio 2014 - 17:15

    Complimenti Andrea, un articolo di vero giornalismo popolare.Sono riusciti a distruggere anche la nostra storia. Un abbraccio Piero

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