Carlo Dore jr.
Trent’anni or sono moriva Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Partito comunista italiano. Dopo lo scritto di Gianni Marilotti di lunedì, ecco sul leader comunista una riflessione di Carlo Dore jr.
“Berlinguer era un’altra cosa”. Lo penso sfogliando le pagine di un libro ingiallite dal tempo che passa, scorrendo le foto in bianco e nero che ancora ripropongono i frammenti di una stagione mai conclusa, le lacrime e i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato.
“Berlinguer era un’altra cosa”. Lo dice un sorriso regalato dal balcone di Botteghe Oscure la sera della vittoria del 1975, la sera in cui un popolo intero sentiva che davvero la Storia stava per cambiare verso, la sera in cui la sinistra italiana bussava per la prima volta ai portoni dei palazzi del potere. Ci credeva, quel popolo, al modello del socialismo da far crescere nel cuore della Nato, all’eurocomunismo come risposta a blocchi e muri. Sì, ci credeva, quel povero popolo: alla stretta di mano con Moro ed al dialogo tra masse operaie e masse cattoliche, al Compromesso storico ed alla dialettica democratica come strade da perseguire per superare i limiti di una democrazia che Jalta aveva voluto imperfetta.
“Berlinguer era un’altra cosa”. Lo sussurra il profilo pallido di un uomo solo nella bufera, sommerso dalle invettive dei craxiani inferociti durante il congresso di Verona: colpevole di avere intuito per primo il funzionamento delle logiche perverse che governavano determinati sistemi di potere, di avere opposto la barriera della questione al dilagare di quella stessa corruzione istituzionalizzata destinata a radicarsi ulteriormente all’ombra della Milano da bere.
“Berlinguer era un’altra cosa”. Lo conferma l’applauso scagliato contro il cielo di Padova da una piazza piena di gente, costretta ad accompagnare le ultime parole di un leader morente, condannata, in quella maledetta notte di trent’anni fa, a tramandare all’infinito il suo testamento politico ed intellettuale: casa per casa, strada per strada, fabbrica per fabbrica, sezione per sezione. Lo gridano le parole spezzate di Sandro Pertini, in ginocchio davanti alla bara scura: lo gridano per rendere omaggio a quello che era prima di tutto “un amico fraterno, un figlio, un compagno di lotta”
“Berlinguer era un’altra cosa”. Il mio pensiero attraversa anni e storie, per poi perdersi in una piazza vuota, occupata solo dal frastuono assordante delle invettive vomitate sulla rete da uno sgangherato comico da strada, degli slogan ripetuti ossessivamente dai boy scout de “la musica è cambiata”, delle barzellette sempre più stanche di un vecchio venditore di sogni che ancora non vuole smontare il suo polveroso circo di menzogne e miliardi.
“Berlinguer era un’altra cosa”. Lo ripeto, nella solitudine di questa piazza vuota. Lo ripeto a beneficio dei tanti che, come me, proprio non si riconoscono negli stereotipi della politica 2.0., e che ancora cavalcano i miti della partecipazione, della tutela dei valori costituzionali, delle grandi battaglie democratiche, delle idee che infiammavano piazze ee cuori per non consegnarsi senza colpo ferile alla dimensione dell’Uomo solo al comando.
A noi, e solo a noi, rimane la forza di un ricordo lungo trent’anni, fissato tra pagine ingiallite e foto in bianco e nero: ci restano i frammenti di quella stagione mai conclusa, ci restano le lacrime per quello che potevamo essere e non siamo stati. Ci rimane l’immagine di un sorriso in una notte di vittoria, che allenta per un istante la solitudine di quella piazza vuota.
Ci rimane la consapevolezza di aver creduto in un sogno, e l’orgoglio di avere fatto bene a crederci. Perché Berlinguer era un’altra cosa.
(cagliari.globalist.it)
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