Quale democrazia per un’Europa frazionata?

8 Giugno 2014
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Gianfranco Sabattini
In un articolo apparso in “MicroMega 3/2014”, Philippe Van Parijs, filosofo ed economista, conosciuto come uno dei principali sostenitori della proposta dell’introduzione a titolo universale del reddito di cittadinanza (o reddito di base), avanza un’interessante ipotesi di “modello di democrazia” per il contesto dell’Unione Europea, conforme alla sua alta frammentazione socio-politica e fondato sull’organizzazione di un’unica “circoscrizione elettorale paneuropea”.
L’UE, sostiene Van Parijs, sia pure nella sua attuale forma organizzativa, non è più un insieme di Stati sovrani ”che cooperano ai fini di un vantaggio reciproco”. L’UE è “ormai di fatto una comunità di cittadini i cui destini sono massicciamente influenzati dalle istituzioni socio-economiche che essi condividono”. Per questo motivo, sostiene Van Parijs, l’Unione Europea dovrà essere governata, se non proprio alla stregua di una nazione, certamente non come una semplice organizzazione internazionale. Stando così le cose, quale modello di democrazia potrebbe meglio rispondere alle esigenze di governo dell’intera Unione?
Dovrà trattarsi, afferma l’economista belga, di un modello che consenta processi decisionali collettivi democratici, fondati in ultima analisi “sul voto libero, sul suffragio universale e su una qualche forma di governo della maggioranza”. A favore di un simile modello esistono tre giustificazioni: due di esse si riferiscono alla “qualità” che si assume debbano avere i processi decisionali collettivi; la terza riguarda il “costo” che è necessario sostenere per fare rispettare le decisioni.
Delle ragioni che giustificano la necessità che i processi decisionali siano qualitativamente apprezzabili, una è espressa dalla “forza istruttiva della ricerca del voto”, connessa all’esigenza che i politici stabiliscano un “canale di comunicazione” con i cittadini, dal cui voto dipende la loro elezione, ascoltandone le istanze; un’altra è espressa dalla “forza civilizzatrice dell’ipocrisia”, imposta in democrazia dalla necessità che il processo decisionale democratico non si limiti al solo momento del voto, ma trovi la sua completa legittimazione nella continuità del dibattito e della discussione riguardo ai problemi da risolvere; tutto ciò in considerazione del fatto che, indipendentemente dalla credibilità o meno degli eleggibili o degli eletti, la necessità che il loro “impegno” sia considerato credibile “finisce per incivilire non solo le loro parole, ma anche le loro politiche”. Infine, la giustificazione del “costo” del modello di democrazia europea risiede, secondo Van Parijs, nella “forza autodisciplinante dell’autoimposizione”, nel senso che l’apparato burocratico, destinato a consentirne il funzionamento, opera in maniera più efficiente, se l’attuazione delle decisioni assunte non richiedono procedure repressive, costose e invadenti.
Delle ragioni considerate, perché le prime due possano produrre i loro effetti (quelli dovuti alla “forza istruttiva della ricerca del voto” e alla “forza civilizzatrice dell’ipocrisia”), esse devono essere sorrette dai cittadini aventi diritto al voto; mentre la terza può produrre gli effetti dovuti alla “forza autodisciplinante dell’autoimposizione”, solo se i singoli Stati membri dell’UE sono propensi a conformarsi alle decisioni assunte a livello europeo. Perché ciò possa avvenire, si chiede Van Parijs, in che “modo andrebbe riprogettato il processo democratico per far sì che tutti gli effetti delle tre condizioni possano prodursi?
Tenuto conto della “natura frammentaria” dal punto di vista delle identità nazionali e linguistiche dell’intero “demos” dell’UE, una prima “strada” potrebbe essere individuata in quella che Van Parijs denomina “demoi-cratica” (“demoi” plurale di “demos”), consistente nel fare “affidamento sul fatto che ciascuna delle democrazie degli Stati membri tenga conto degli altri Stati membri”. Questa via, però, presenta il limite che il processo decisionale europeo risentirebbe in modo disfunzionale della preminenza degli interessi nazionali, che non consentirebbero di tenere conto in modo adeguato delle sfide poste dalla segmentazione nazionale e linguistica dell’intero “demos” europeo.
In alternativa alla prima “strada” ne esiste un’altra, che Van Parijs denomina “demos-cratica”, consistente nella realizzazione di una circoscrizione elettorale paneuropea, per l’elezione diretta di un Parlamento europeo; in conseguenza di ciò, sarebbe necessario rimodulare in senso federalista la struttura istituzionale dell’intera UE, perché sia resa idonea a garantire la produzione degli effetti precedentemente illustrati, soprattutto quelli della terza condizione, a garanzia della propensione dei singoli Stati ad uniformarsi alle decisioni assunte dalla nuova struttura istituzionale, secondo le procedure decisionali in vigore a livello di ogni singola realtà statuale. Quest’ultima “strada”, come la prima, non è priva di limiti, perché anch’essa non tiene conto della segmentazione nazionale e linguistica dell’intero “demos” europeo.
Secondo Van Parijs, i limiti propri delle seconda “strada”, cioè di quella “demoi-cratica”, potrebbero essere superati con la formula organizzativa istituzionale propria della Svizzera, operante sulle base di istituzioni aperte e sensibili rispetto soprattutto al problema della frammentazione linguistica. L’ingegneria istituzionale democratica della Svizzera, consistente nell’assicurare all’interno dell’esecutivo una rappresentanza proporzionale ai partiti politici presenti in Parlamento (Consiglio Nazionale), è garantita dal “timore” di iniziative popolari referendarie di natura ostile, sufficienti a dissuadere le possibili maggioranze parlamentari dall’idea di escludere dall’esecutivo gli altri partiti. Questo meccanismo, secondo l’economista belga, sarebbe migliore e più garantista delle forme di organizzazione istituzionale maggioritarie poste a presidio della legittimità democratica, come quelle operanti all’interno delle democrazie parlamentari nazionali.
A livello europeo, una “demos-crazia”, relativa all’intera area politica dell’UE, potrebbe funzionare soddisfacentemente sulla base dell’organizzazione propria della Svizzera, solo se i suoi presupposti linguistici fossero soddisfatti meglio di quanto non sia stato fatto sinora. Infatti un “demos” europeo potrebbe svolgere la sua funzione di “guardiano” della qualità delle procedure decisionali democratiche delle istituzioni, unicamente se tutti i cittadini e le loro organizzazioni potessero coordinarsi e mobilitarsi, non solo per garantire che il governo dell’UE si prenda veramente cura dei singoli stati di bisogno, ma anche per assumere su di sé “alcuni dei compiti di protezione sociale di cui gli Stati membri non riescono più ad occuparsi in maniera adeguata, assicurando a un tempo la sopravvivenza e la varietà dei vari sistemi di welfare”.
E’ senz’altro condivisibile l’idea di Van Parijs di dotare i cittadini dell’intera Europa di un’uniformità linguistica, a presidio delle tre ragioni che rendono vantaggiosa l’organizzazione istituzionale democratica dell’Europa unita; tuttavia, è quantomeno riduttivo ipotizzare che il governo unitario dell’UE possa dipendere solo dall’eliminazione della frantumazione linguistica dei diversi “demos” europei.
A parte la considerazione che l’adozione, per analogia, di un’organizzazione istituzionale “complessa” come quella della Svizzera potrebbe non avere successo in altro contesto sociale e politico, occorre tenere presente che la frammentazione dei “demos” europei dipende anche da una molteplicità di dimensioni di natura extralinguistica, la cui eliminazione sarebbe destinata a pesare non poco sul senso di identità di ogni singolo “demos”. Che fare allora? La realizzazione di una circoscrizione elettorale paneuropea, per l’elezione diretta, in termini rigidamente proporzionali, di un Parlamento europeo, in grado di esprimere un esecutivo decidente su basi maggioritarie, continua a rimanere la via maestra per il conseguimento della tanto agognata unificazione politica dell’Europa, al riparo dagli insuccessi e dai fallimenti che le organizzioni istituzionali ”complesse”, come quelle delle Svizzera, hanno sperimemtato in altri contesti sociali e politici (l’esempio dell’ex Iugoslavia docet).

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