Un posto anche per me

6 Maggio 2014
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 Gianna Lai

Oggi alle 10,30 a Monserrato, nella casa della Cultura di via Cabras n. 37, alla presenza dell’autore, Francesco Abate, viene presentato il romanzo Un posto anche per me, Einaudi editore, 2013. Aperitivo letterario 2014 organizzato dall’Ist. Alberghiero Gramsci in collaborazione con Miele Amaro - Ass. di lettori.
Ecco una recensione del romanzo di Gianna Lai. 

‘C’è questo ragazzo che se ne va a prendere l’autobus, poi il pulmann, poi il treno e ancora un auto, Marisa. La solita trafila da anni’.
Quell’autobus è il suo lavoro di tutti i giorni, da una parte all’altra della città, come per un qualunque pendolare che debba raggiungere luoghi sempre più lontani. E scendere e abbandonarlo è impossibile, sarebbe come pretendere di uscire dai guai. Viaggio nello spazio claustrofibico di un presente interminabile e freddo, terribilmente freddo, con quella sinusite ‘che ti trapana il cranio’, in quel cappotto che mette in risalto la stazza superiore alla media. E vi si innesca il ricordo delle cose che vorresti cancellare, e che ogni volta ti assalgono proditoriamente, in quell’isolamento necessario, obbligato, di una vita passata in silenzio, come per impedirti di crescere.

‘Un posto anche per me’, di Francesco Abate, Einaudi, Stile libero, 2013, sembra il lungo monologo del giovane Peppino, già in quell’immagine di copertina di profonda solitudine. Un lungo monologo per voce narrante esile, fragile e dispersa nel mondo dell’impossibile, dedicato a Marisa. E a lei si rivolge Peppino, il ragazzo sardo del ristorante, con trasporto e convinzione, alimentandone presenza e spirito vitale, come potesse sempre aiutare a giudicare e dare giuste risposte alle domande. Come se la voce narrante rischiasse di perdere tono e sentimento, senza la presenza continua di Marisa che, talvolta, sembra lì a leggere con noi, e a capire, cose che prima, non aveva capito neppure lei. E potesse perdere realismo la narrazione senza di lei, quando cogliamo il personaggio soprapensiero, immerso completamente nel ricordo, e costretto ad ammettere che la memoria è offuscata, e che lui deve chiedere scusa all’amica per aver perso la ragione. O quando Peppino parla di sè in terza persona, e sembra che lo sguardo si allunghi a considerazioni di carattere generale, che rendono più leggibili i caratteri dell’ingiustizia, la sanno inquadrare, perchè un giorno o l’altro, chissà, si possa anche affrontarla. Un pò come un tempo hanno cercato di insegnargli Marisa, don Cugusi e il nonno.

Questo viene da pensare man mano che si entra nella storia di Peppino, il momento dell’abbandono per un fanciullo inconsapevole, per un ragazzo confuso e spaesato, che scontano entrambi la miseria di tante esistenze marginali e inutili, nutrimento inesauribile di malavitosi senza scrupoli. Perchè si chiudono presto le speranze alimentate dalla scuola delle suore, prima, dei Salesiani, poi. E Peppino viene iniziato alla vita nella città onnivora e schiacciante, con quell’enorme centro abitato e quella enorme periferia di gente bene, protetta da telecamere e guardie, e però così attigua e simile, per degrado morale, alla desolazione dei luoghi di povertà e miseria. Il senso sta tutto dentro quelle buste in cartone che, dal ristorante dello ‘zio Mino’, attraversano la città tutti i giorni, e pure il giorno di Natale, che non ci si accorge neppure che è Natale. Fino a quando non riusciamo a rovistarci dentro anche noi in quelle buste, e finalmente capiamo. L’esistenza di un giovane sempre in bilico, e destinato a riscattare i gravissimi peccati del padre, nel segno forte di un’apparteneza sentimentale, non andata mai del tutto perduta per quel Deiana Bruno, che ‘è sempre stato magico’. E che rende più chiaro e consapevole l’affetto per Marisa, la riconoscenza nei confronti di don Cugusi, e la stessa amicizia, oggi, con Wahid e con Cambazzu..

Tutti danno spessore e corpo al corpo del ragazzo che, invece, deve passare invisibile, inosservato, non deve essere notato nel suo lavoro di stafetta e, se noi stentiamo a capire, è perchè anche lui, all’inizio, stenta a capire o, forse, ci immedesimiamo a tal punto, da assecondarne modi e presa di coscienza. Perchè c’è un contrasto forte e insanabile nella vita di Peppino, quel tacere e stringere i pugni con rabbia, quell’ obbedire in silenzio, pur non accettando l’imposizione. E la paura opprimente e intollerabile, cui si può tener testa solo con l’aiuto di Marisa, ‘ci sei tu, certo, che mi ascolti sempre’, e del fido coltello nascosto dentro gli abiti, che racchiude tutta la sua istintiva capacità di difesa contro gli assalti dei balordi di periferia. Finchè non sembra cominciare a nascere, proprio da lì, una certa capacità di distacco, il primo sguardo sul mondo finalmente senza risentimento. Una leggerezza nuova nel ricordo di certi familiari e vicini di casa, e suore e compagni, ancora vivi grazie ai loro stravaganti sopranomi, al profumo, o all’odiosa puzza dell’alito, che ce li restituiscono in tutta la loro bontà o cattiveria. E nei racconti esilaranti del movimentato funerale del nonno, dove si apprendono finalmente le parolacce, che servono poi per tutta la vita, insieme a un senso nuovo della pietas, contrapposta all’ipocrisia di regole e tradizioni. L’ironia si mescola alla vita dura e alle emozioni del presente, per cominciare a dar loro un significato diverso, come nei rituali ripetuti, che fanno tremare le gambe, durante la partita Roma-Cagliari. E che rimandano alla curiosità del bambino e del ragazzo, ora reso più accorto e riflessivo da quel vivere il presente, riandandando avanti e indietro nel passato, a recuperare tempo e memoria. Così procede il romanzo di Francesco Abate, per lunghe narrazioni che delineano personaggi e ambienti e sommovimenti, e che crescono e si chiariscono man mano senza troppe spiegazioni. Come si raccontassero da sè o, più semplicemente, come fossimo noi a restituirgli plasticità, afferrando quello che prima era rimasto come in sospeso, in attesa di un contesto, di nuovi particolari, che lo mettano in luce e lo concretizzino. Merito sopratutto della scrittura, che all’esigenza della rappresentazione di Peppino, di quel suo monologo interiore, si adatta, e sa rappresentarlo mentre parla degli altri, ma è di sè che vuole dire, in questo vai e vieni esistenziale dal prima al dopo. Sempre bisognoso di ritocchi e puntualizzazioni, perchè sia tenuto saldamente ancorato al presente il ricordo. Fino alla svolta finale, quando la memoria inquadra i passaggi risolutivi della vita nell’episodio di Costa Rey, e il discorso può riprendere lì dove era stato lasciato, il filo mai interrotto col presente che segna il vero cambiamento. Come se Marisa ispirasse il pensiero per l’ultima volta, e aiutasse a sistemare i tasselli e a procedere con nuovo ordine mentale.

Romanzo di formazione dentro un processo tortuoso e lungo, chè ‘la vita la capisci meglio quando è passata’, la condizione di schiavo deve compiere interamente il suo percorso, restituendo tutto il realismo di un mondo in disfacimento, perchè avvenga la trasformazione che l’amico tassista, e di sinistra, aveva auspicato fin dall’inizio.

Popolare la lingua, nell’intercalare casuale con quel poco di sardo che Peppino ricorda di via S.Efisio, e in quei regionalismi e dialettismi che lo riportano all’isola e che, con grande intelligenza, l’autore mescola al gergo romanesco, necessario a rappresentare il clan dello zio e l’indifferenza della città. E vi si insinuano la nuova curiosa lingua del migrante tunisino, in quella parlata colorita e vivace, e la spontaneità del gioco dei termini incomprensibili, pescati da un italiano ormai desueto, per dare più espressività e sentimento alla scelta delle parole e, insieme, a tutta la scrittura.

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