Togliatti: padre della patria da rivalutare?

22 Marzo 2014
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Gianfranco Sabattini

Su “La Lettura” del “Corriere” del 16 febbraio, Francesco Piccolo, scrittore e sceneggiatore, ha scritto un articolo che, come lui steso afferma, intende essere, sin dal titolo, una provocazione: “Rivalutare Togliatti”. La provocazione pare doversi desumere dal fatto che la rivalutazione riguarda la personalità di un politico che, dopo un lungo periodo in cui ha guidato il più grande partito comunista dell’Occidente, risulta “irrisolta”, per via delle “contraddizioni” delle quali Togliatti sarebbe stato portatore e che sarebbero valse a radicare nei suoi avversari politici l’idea che tutto il suo modo di pensare e di proporre fosse contaminato da doppiezza; tale idea si è talmente radicata in una parte dell’immaginario collettivo, che continua ad essere conservata anche dopo la sua morte.
Verrebbe subito da chiedersi: ma qual è l’uomo politico che, pur se leader indiscusso del proprio partito, nel corso della sua attività sia andato esente da modalità argomentative e da decisioni a volte contraddittorie? Sta di fatto che Togliatti, a cinquant’anni dalla morte, continua a scontare l’accusa d’essere stato sempre combattuto tra l’dea di poter realizzare in Italia le condizioni utili a percorrere una via democratica verso il socialismo e la sua fedeltà all’URSS; la sua presunta “doppiezza” ha così offerto, e continua ad offrire, ai suoi avversari politici, sulla base di un arsenale documentario smisurato, in parte tratto dagli archivi di Mosca, l’accusa d’essere stato un fedele esecutore della volontà di Stalin e di aver tramato per portare il paese a schierarsi nel campo delle cosiddette democrazie popolari dell’Est europeo, egemonizzate dallo stivale oppressivo di Mosca.
Questo rilievo, pur cogliendo un Togliatti costantemente schierato con l’URSS, anche quando le circostanze lasciavano ampi margini di discrezionalità decisionale e comportamentale, mancano di considerare che le condizioni di illibertà in presenza delle quali egli si è trovato a pensare e ad agire e la temperie dei tempi in cui il mondo era suddiviso in “blocchi contrapposti” possono giustificare alcune o molte delle posizioni solitamente poste a fondamento dell’accusa rivoltagli. Tuttavia, dal punto di vista degli “interessi” dell’Italia, può dirsi che le scelte di Togliatti e il modo in cui egli le ha motivate e sostenute, sin dal suo rientro in Italia nel 1944, siano sempre state “suggerite” dalla sua acquiescenza all’URSS e siano risultate nocive alla posizione internazionale assegnata all’Italia dalle potenze vincitrici? Può dirsi che quelle scelte siano state contrarie al ricupero del prestigio che l’Italia aveva perso con il fascismo e la sconfitta militare e abbiano compromesso la ricostruzione postbellica del paese, anche grazie ai vantaggi acquisiti con la dichiarazione dell’Italia di paese cobelligerante dalla parte degli eserciti vittoriosi sul nazismo?
Per quanto si possa continuare ad accusare Togliatti di doppiezza, sta di fatto però che, dopo il suo rientro in Italia, egli ha sempre operato per il bene del paese: ha sicuramente mediato perché il piccolo Regno del Sud, sorto dopo l’armistizio del 1943, fosse riconosciuto, prima che dagli altri paesi, dall’URSS; è stato il protagonista della tanto discussa “svolta di Salerno”, con cui ha favorito che la soluzione della “questione istituzionale” fosse rinviata alla fine delle ostilità belliche, assegnando priorità alla guerra di liberazione dell’Italia dall’invasore tedesco; in un clima di pacificazione tra le forze politiche di opposte tendenze rinate dopo il settembre del 1943 è entrato a fare parte del governo Badoglio; finita la guerra, si è reinserito nella cultura patriottica dell’Italia riconoscendo in Mazzini, in occasione di una sua conferenza all’Università di Pisa, il solo patriota ad aver riconosciuto che il popolo poteva essere coinvolto nella costruzione di un’effettiva unità nazionale solo con un mutamento radicale dei rapporti economico-sociali prevalenti (l’allusione alle necessità che la ricostruzione del paese dopo il 1945 dovesse avvenire sulla base di nuovi rapporti socio-economici era d’obbligo); ha contribuito a conservare l’unità delle forze antifasciste per la stesura della Costituzione repubblicana, promuovendo l’accettazione del Concordato stipulato da Mussolini con la Chiesa e, da Ministro della giustizia, ha promosso l’approvazione di una legge con cui ha amnistiato i fascisti. Nonostante tutti questi meriti, che hanno fatto indiscutibilmente di Togliatti un protagonista della vita politica del dopoguerra, egli non è riuscito a conservarsi al governo, in quanto, con l’approfondirsi della contrapposizione tra i “blocchi”, nel maggio del 1947, è stato escluso dalla compagine governativa. Non solo, la dura contrapposizione ideologica, causata dal diffondersi del clima della “guerra fredda” e dopo la sconfitta del Fronte popolare (comprendente PCI e PSI) alle elezioni del 1948, Togliatti ha subito un attentato che ha provocato gravi disordini, bloccati però da un suo appello, lanciato dal letto dell’ospedale nel quale era ricoverato, che è valso a collocarlo, afferma Piccolo, “per sempre dalla parte della democrazia”.
Ma tutta l’azione che Togliatti ha organizzato in Italia, cercando di tradurla in termini politici, continua Piccolo, lo ha portato verso una specie di “doppio canale”, che caratterizzerà nel tempo tutta la sinistra del paese. Nel perseguire la via italiana al socialismo, egli ha privilegiato la “compagnia” e l’accordo coi cattolici e coi socialisti, senza però mai confondere il ruolo delle parti; anche se “scaricato” dal governo nel 1947, ha perseverato nel perseguimento del suo obiettivo, scegliendo di fare opposizione parlamentare e decidendo di “attendere” (mostrando quindi una capacità, quella di sapere attendere, tanto cara alla vecchia nomenklatura del PCI) che il resto del paese si rendesse conto che, per governare l’Italia e condurla democraticamente verso il socialismo, c’era bisogno dell’apporto dei comunisti. Ciò è quanto avrebbe fatto anche Berlinguer dalla morte di Moro sino al terremoto dell’Irpinia; per Piccolo, infatti, sarebbe stretta la somiglianza tra Togliatti e Belinguer, per via del fatto che entrambi avrebbero avuto cieca fiducia in un ravvedimento dell’Italia, che però sarebbe stato reso impossibile per via dei diktat americani e per l’“ostinazione nemica di Bettino Craxi”. Su questo punto, l’analisi di Piccolo è forzata e “genuflessa” e, perciò, fuorviante.
La personalità di Belinguer è stata molto dissimile da quella di Togliatti; la differenza è riconducibile al diverso peso che l’uno e l’altro hanno attribuito all’etica rispetto alla politica. Togliatti non ha mai bloccato il suo proporsi nei confronti degli altri partiti in nome dell’etica; egli ha, sì, sempre tenuto insieme l’etica e la politica, anche quando ciò rendeva più evidenti a volte le contraddizioni della sua azione e quando più insostenibili erano le contrapposizioni ideologiche, ma ha sempre evitato di denunciare sul piano etico i partiti dei quali intendeva ricuperare il rapporto, sulla base di proposte alternative a quelle che ne avevano determinato la crisi. Berlinguer, al contrario, ha fatto della denuncia etica dei partiti suoi concorrenti, in particolare del PSI, un motivo di identità esclusiva, ogni volta che ha reagito all’isolamento politico in presenza di una sua sostanziale incapacità di elaborare una nuova proposta più conciliante sul piano collaborativo. Così, con Berlinguer, da un lato, è nata l’ostinata avversione ad ogni ricerca di una strategia condivisa, che è l’essenza della democrazia e della tolleranza verso i “diversi”, con l’altro principale partito della sinistra italiana, il PSI; da un altro lato, si è affermata la spocchiosa propensione dei dirigenti del suo partito a coltivare la “diversità morale” come marchio originario, del quale molti suoi eredi hanno fatto strame in più di un’occasione e al pari degli altri.
Ad ogni buon conto, ciò che si può condividere dell’analisi di Piccolo è l’dea che oggi, al di là delle contraddizioni che hanno caratterizzato l’azione e il pensiero del Migliore, l’approccio di questi alla politica vada ricuperato e vada anche rivalutata la sua personalità, in omaggio al fatto che, come ha avuto modo di affermare Eugenio Scalari, nel corso dell’attività politica svolta all’interno del paese sino alla sua morte, Togliatti ha avuto modo di affermarsi come autentico moderato e di dimostrare di aver voluto percorrere in Italia, da autentico moderatore, una originale via al socialismo. Quanto l’Italia attuale abbia bisogno di uomini come Togliatti, per disincagliare l’attività della società politica dalle secche di un falso moralismo, è nell’esperienza di tutti; o almeno è nell’esperienza di quanti vorrebbero la società politica, per un verso, impegnata per il bene del paese e non per soddisfare ad ogni costo la propria brama di potere, e, per un altro verso, scevra dalla propensione a disinteressarsi, come ha fatto sinora il M5S, di ogni “possibile pratica politica”, in nome di un’improbabile etica, che conduce solo all’estraniamento dalla soluzione dei reali problemi sociali.

1 commento

  • 1 francesco Cocco
    23 Marzo 2014 - 10:58

    Franco Sabattini ci ha dato un’ altra prova della vastità dei suoi interessi culturali. Sottolineo questo aspetto perché purtroppo uno dei limiti dei nostri economisti è di ridurre la scienza economica a tecnicismo che non sa allargare i suoi orizzonti alle molteplici forze che agitano la società. Togliatti è stato certamente uno dei più grandi politici italiani del Novecento. I risultati positivi che si ebbero a partire dal dopoguerra (basti pensare alla Costituzione) devono molto al suo realismo al quale dobbiamo anche il merito di aver evitato derive disastrose come si ebbero in Grecia. Quindi è giusto rivalutare Togliatti, rivalutarne la capacità politica e l’ alto livello intelletuale. Specie nell’ attuale stagione dove il pressapochismo e l’ ignoranza sembrano dominare. Questo non ci deve pero portare a sottovalutare l’ anima gramsciana del PCI. Quella che non mirava solo a raggiungere i possibili equilibri politici ma a realizzare quella “rivoluzione culturale e morale” che fu al centro degli obiettivi gramsciani. Dimenticare questo aspetto equivarrebbe a sottovalutare il miglior lasciato del PCI , ridurre il “far politica” a processi di corrompimento della vita pubblica. In ultima istanza sarebbe persino un disconoscimento della lezione togliattiana che non passa per i furbeschi comportamenti di cinici mestiaranti della politica che dicono di volersi richiamare a quella lezione.

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