Quale cultura della Costituzione nel “tempo del coraggio”?

18 Marzo 2014
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Carlo Dore jr.

Si respira uno strano clima, mentre Renzi ed il Ministro Boschi elencano a beneficio delle telecamere i passaggi fondamentali della legge elettorale appena approvata dalla Camera dei Deputati: le mille criticità che hanno scandito il voto di Montecitorio vengono superate in un battito di ciglia, affogate in profluvio di riferimenti a svolte epocali, traguardi storici, sconfitte dei gufi e vittorie conseguite a tavolino sui cantori dell’eterno disfattismo. I protagonisti della presunta “svolta buona” gonfiano il petto, abusando scientemente del linguaggio da cine-panettone: in fondo, questo è il “tempo del coraggio”, non dei vuoti sofisimi praticati dai teorici della democrazia parlamentare.
Eppure, lo strano clima che aleggia nella sala stampa di Palazzo Chigi resta inalterato, malgrado frasi ad effetto ed impegni assunti a reti unificate, e continua a gravare sull’Italicum con tutto il peso di una domanda destinata a rimanere senza risposta: nel tempo del coraggio, c’è ancora spazio per la cultura della Costituzione?
Figlio legittimo dell’accordo concluso da Renzi e Berlusconi in quel di Sant’Andrea delle Fratte (e maledetto dall’immagine della partita a golf tra Che Guevara e Fidel Castro), l’Italicum dovrebbe costituire il primo passaggio di un percorso riformatore destinato ad includere anche il superamento del bicameralismo perfetto e la riforma del titolo V della Carta Fondamentale: una vera e propria relecture dei pilastri del nostro sistema istituzionale, concordato al chiuso di una stanza da due leader accomunati dall’adesione alla logica de “L’Etàt c’est moi”.
E così, ecco apparire una nuova legge elettorale destinata ad operare per la sola Camera dei Deputati, mentre l’elezione dei senatori continua ad essere regolata dagli ultimi brandelli del Porcellum. A quanti segnalano i rischi a cui va incontro un Paese costretto a danzare sul baratro della sostanziale ingovernabilità, rilevando l’impossibilità di far coesistere due sistemi radicalmente antitetici (un proporzionale con sbarramento, liste bloccate, premio di maggioranza ed eventuale doppio turno; ed un proporzionale puro, senza premio di maggioranza e con le preferenze), il premier oppone una infastidita scrollata di spalle: che ci importa del Senato, se tanto lo dobbiamo abolire? Basta rallentare il rinnovamento ricorrendo a bizantinismi inutili: è il tempo del coraggio, non del disfattismo!
Ma le certezze del Presidente del Consiglio si infrangono contro quell’interrogativo inevaso: quale spazio rimane alla cultura della Costituzione nel tempo del coraggio? Già, la Costituzione: la Costituzione sfugge alla piena disponibilità degli uomini del fare, rimesso com’è il procedimento di revisione al doppio passaggio parlamentare, alla presenza di maggioranze qualificate, all’eventuale referendum confermativo. Un procedimento aggravato, e come tale non del tutto controllabile dalla maggioranza politica contingente; un procedimento aggravato, il cui esito non può considerarsi scontato per chiunque abbia acquisito un minimo di cultura costituzionale.
Di più: chiunque abbia acquisito un minimo di cultura costituzionale sarebbe in grado di rilevare l’anomalia collegata all’approvazione di una legge che di fatto considera già superato un principio (quello del bicameralismo paritario) ancora vivo e vitale in seno all’ordinamento tracciato dalla Carta Fondamentale. Siamo ben oltre la riflessione sui possibili profili di illegittimità costituzionale che potrebbero caratterizzare l’Italicum: siamo all’istituzionalizzazione della cultura dell’incostituzionalità.
E allora, la risposta a quell’interrogativo inevaso implica di fatto la soluzione dell’ulteriore quesito prospettato da alcuni esponenti della minoranza interna al Partito democratico all’indomani del patto di Sant’Andrea delle Fratte, suggellato sotto l’icona incredula del Che: per quale motivo non si è approvata una norma che, restituendo efficacia alla legge elettorale in vigore fino al 2006, avrebbe permesso all’Italia di superare le secche del semestre europeo, per poi affidare alla maggioranza uscita vincitrice dalle nuove elezioni il compito di intraprendere un percorso di riforme ispirato ad un programma politico ben definito?
Altra scrollata di spalle, altra battuta al vetriolo: basta con i gufi, basta con il disfattismo. Siamo gli uomini del fare, siamo quelli della svolta buona: siamo i protagonisti del tempo del coraggio. Già, del tempo del coraggio, in cui non c’è più spazio per la cultura della Costituzione.

(cagliari.globalist.it)

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