Caro Beppe, hai ascoltato “Ernani”?

11 Marzo 2014
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Carlo Dore jr.

“L’Italia è un’arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme”. Le parole di Grillo squarciano la quiete del web in una tranquilla domenica di fine inverno, ennesima puntata di un’invettiva senza fine: dopo la gogna ai giornalisti, le epurazioni di massa, gli attacchi rivolti a tutte le istituzioni operanti in seno all’ordinamento repubblicano, ecco l’affondo contro il valore stesso dell’unità nazionale, contro quell’idea di Italia “una e indivisibile” recepita dalla Carta Costituzionale.
E’ troppo. Mentre Maroni e Salvini si affrettano a rilanciare l’ultimo versetto dal vangelo del Dio del Blog – preconizzando forse una tanto improbabile quanto pericolosa santa alleanza tra i vecchi galli calati da Pontida e i novelli grillini inneggianti al ritorno del Regno delle due Sicilie – a quanti proprio non intendono rinunciare a difendere i valori fondanti della democrazia repubblicana non rimane che opporre la forza di un paio di domande ai sermoni del guru pentastellato: davvero siamo un popolo senza radice comune? Davvero gli Italiani non hanno più ragione di stare insieme?
Ma soprattutto: caro Beppe, tra uno show e l’altro, tra un’espulsione e l’altra, tra un anatema e l’altro, hai mai ascoltato “Ernani”?
Si, Beppe, hai mai ascoltato “Ernani”? La maggioranza dei fans del comico - normalmente lontana, per cultura e formazione, dalle nobili pagine del melodramma italiano – non potrà che accogliere questo interrogativo con un ruggito di infastidita indifferenza; i pochi militanti del Movimento che invece risultano più sensibili alle note del repertorio verdiano non esiteranno a gonfiare il petto, pervasi da un sano fremito di orgoglio: Ernani era il Robin Hood spagnolo, che lottava contro l’arroganza della Corona, proprio come Beppe combatte contro la Casta a colpi di comizi e post al vetriolo. Beppe è Ernani, e noi siamo il coro dei fidi che si preparano a dare l’assalto al palazzo del potere.
In verità, ben pochi sono i punti di contatto tra lo sgangherato vate genovese e lo sfortunato conte di Aragona: Ernani incarna infatti, più di ogni altro personaggio animato dalle note di Verdi, la capacità di un popolo di lottare per farsi nazione, l’esaltazione dell’unità tra princeps e collettività, l’orgoglio dei tanti che scelsero la morte dell’eroe alla prospettiva di una vita macchiata dal disonore. Ernani è Venezia soffocata dal tacco austriaco; Ernani è “La Fenice” che esplode in un tripudio di coccarde tricolori al termine del coro dell’atto terzo, nella grandiosità di una Nazione che sorge radiante di gloria; Ernani sono i soldati in divisa bianca che sbandano sotto gli applausi di un branco di banditi, accecati, per una sera, dallo sconosciuto orgoglio di sentirsi Italiani; Ernani è Verdi che abbandona il teatro con un sorriso, forse consapevole di avere legato per sempre il suo nome ad un sogno. Ernani è Verdi, e Verdi è l’Italia.
E allora, diviene ancor più necessario chiedere: caro Beppe, tu che pretendi di guidare una rivoluzione a colpi di tastiera; tu che, in quel che resta del tuo Movimento comandi, imponi e disponi; tu che descrivi l’Italia come un’arlecchinata di popoli di fatto privi di radice comune, hai mai ascoltato “Ernani”?
La risposta è: forse no. Se Grillo avesse ascoltato il coro del terzo atto, avrebbe forse sentito l’eco degli applausi de “La Fenice”, e avrebbe trovato nella forza di quelle note la radice comune che costituisce la ragione più autentica del nostro “essere popolo”, il vincolo fondante del nostro “stare insieme”.
No, Grillo non ha mai ascoltato Ernani, e piuttosto che vivere la luminosa fine dell’eroe tragico, rischia di affidare il momento conclusivo della sua esperienza politica da ad una scena differente: quella di un uomo solo nelle tenebre di un palcoscenico vuoto, abbandonato da cortigiani paludenti e nemici immaginari, schiacciato dal peso insopportabile della sua ultima maledizione. Un finale da buffone della sorte, più adatto a Rigoletto che a Ernani. Un finale da buffone della sorte: ma pur sempre un finale da melodramma.

pubblicato su   cagliari.globalist.it

Per una migliore comprensione ecco il post del blog di Grillo, cui si riferisce Carlo Dore jr.

E se domani…

E se domani, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all’Etiopia. Una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati(?) dello Stato. Quale Stato? La parola “Stato” di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un’arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all’interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant’anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all’estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all’estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di “delocalizzare” le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse “Basta!” con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. E’ ormai chiaro che l’Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l’Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l’identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l’annessione della Lombardia alla Svizzera, dell’autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d’Aosta e dell’Alto Adige alla Francia e all’Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani…

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