Fannulloni o crisi dello Stato?

29 Ottobre 2008
1 Commento


Francesco Cocco

Può apparire donchisciottesca l’impresa che sembra essersi prefisso il ministro Brunetta di mettere rimedio alla crisi della Pubblica Amministrazione dando la caccia ai “fannulloni. L’idea di risolvere con i “tornelli” l’inefficienza amministrativa e persino quella giudiziaria ha in sé una naturale carica di umorismo che finisce per rendere simpatico il ministro della funzione pubblica anche agli avversari politici.
Con ciò non si vuole negare che nel pubblico impiego esistono larghe fasce di dipendenti che non assolvono ai loro compiti con la dovuta diligenza. Sanzionare, e con giusto rigore, i “fannulloni” è un primo e doveroso compito. Oltretutto serve a tutelare i lavoratori seri, che sono la stragrande maggioranza. Ma per superare l’inefficienza della macchina statale occorre spingere l’analisi più in là e individuarne le cause attuali e quelle più remote.
Già nel “Rapporto sulla corruzione nella pubblica amministrazione”(fine degli anni ’90), nella parte conclusiva si avanzava la proposta di adottare codici di comportamento che ristabilissero l’etica pubblica, “della quale in Italia si è perduta la memoria”. Appare sempre più evidente che senza un’etica nella pubblica amministrazione lo Stato non può funzionare.
In fondo anche qui il problema è quello di riscoprire il senso profondo del dettato costituzionale. L’art. 98 della Costituzione recita :” I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Pertanto il pubblico dipendente, nell’esercizio dei ruolo affidatogli, non deve servire alcun interesse personale, o di gruppo, o di partito.
Se vi è una progressiva privatizzazione del rapporto di pubblico impiego è perché sono entrati in crisi i valori a base del dettato costituzionale. Avanza il convincimento che riconducendo l’azione della pubblica amministrazione a criteri privatistici, e conseguentemente a logiche di efficienza imprenditoriale, si ottiene la liberazione del cittadino da eccessivi gravami amministrativi e fiscali. E’ così diventata dominante l’idea, e spesso si è fatta realtà, che occorra riservare o conferire alla gestione privata tutto ciò che non rappresenta un’esplicitazione diretta di volontà pubblica.
Negli anni Ottanta il cosiddetto “Rapporto Giannini” teorizzava il passaggio al privato di tutto ciò che non è strettamente riferibile all’esercizio di funzioni pubbliche. La teorizzazione di una tale posizione nasceva dal fatto che già negli anni ’70 era percepita la fine di un’epoca, e con essa una certa concezione della pubblica amministrazione durata qualche secolo. Questa forma di Stato entra in crisi quando cominciano a perdere forza i principi che lo sorreggevano. A cominciare dall’etica del lavoro, poi si fa strada la deresponsabilizzazione dell’individuo, ed il generale crollo dei tradizionali codici di comportamento sociale. Questo non impedisce che la crisi si accompagni ad una crescita incontrollata della struttura del sistema pubblico e dei conseguenti oneri finanziari.
Connessa ad una tale crescita è l’invadenza dei sindacati e dei partiti, che diventano “organi di assunzione e di protezione” (da non confondere con la legittima tutela) dei dipendenti pubblici. Il “padrinato politico” porta ad un virulento indebolimento delle strutture della pubblica amministrazione.
Se certi Stati reggono, pur in presenza di una crisi del loro sistema istituzionale, è proprio grazie alla capacità di tenuta della loro burocrazia. Si pensi alla Francia: il suo sistema riesce a resistere proprio in virtù del ruolo esercitato dalla “Scuola di alta amministrazione” nel creare una coscienza di sé nella dirigenza burocratica, gelosa custode delle proprie funzioni, esercitate in autonomia rispetto a quelle politiche.
In Italia si è tentato di porre un argine ad una tale situazione di confusione, con specifiche norme che dovrebbero avere il compito di segnare una netta demarcazione tra la funzione politica e quella amministrativa. I risultati stentano ad apparire, o comunque a farsi regola generale di comportamento, anche perché resta dominante il controllo politico ed il conseguente vassallaggio degli apparati. In questo campo non bastano le norme, accanto ad esse occorre un mutamento di mentalità.
Se avessimo avuto una burocrazia con una forte carica etica, capace di resistere ad indebite pressioni, ci troveremmo in una situazione più facile su tanti piani: meno corruzione, più rispetto del cittadino, maggiore efficienza, costo inferiore dei servizi pubblici.
Oggi si progettano grandi riforme istituzionali. Bisogna, però, tener presente che vi è un’esigenza primaria di funzionamento dell’ amministrazione pubblica. In non piccola misura la minaccia di frantumazione dell’unità del Paese è fortemente alimentata proprio dal suo cattivo funzionamento e dai costi eccessivi che comporta.
Per salvare il Paese occorre che anche i pubblici dipendenti facciano la loro parte. A tal fine la burocrazia necessita di una rinvigorita etica pubblica, che le dia piena coscienza del proprio ruolo. E’ cioè necessario che essa ritrovi pienamente il significato dell’art. 98 della Costituzione nel senso più profondo.

1 commento

  • 1 Ivana Pisola
    3 Novembre 2008 - 20:45

    “La carica etica”, suggestivo messaggio.
    Mi permetto di collegare alle interessanti osservazioni dell’autore dell’articolo un passo che traggo da Micromega 5/08, pag. 78 “Il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescienti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perchè l’intransigenza costa troppo fatica”.

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