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Gianfranco Sabattini aveva proprio ragione in questo blog qualche giorno fa a proposito della crescita delle disuguaglianze in questa crisi. I 750 addetti britannici di Lehman Brothers Holdings Inc., che nei giorni scorsi hanno ricevuto una comunicazione di licenziamento a seguito del crack della banca, potranno contare su una liquidazione garantita di 800 sterline (1.011 euro) ciascuno, e dovranno mettersi in fila assieme agli altri creditori se vogliono sperare di intascare almeno una parte delle loro gratifiche. Il presidente Fuld Richards Jr. invece ha una liquidazione “poco” più alta: 500 milioni di dollari! E l’ha già intascata!
Il fenomeno dei disoccupati d’oro è ormai all’attenzione da anni. Nell’Olimpo dei Paperoni che tirano le fila dell’ economia mondiale è emersa già da qualche anno una nuova (invidiatissima) categoria sociale: i felicemente licenziati. Il loro identikit è articolato: ci sono top manager arrivati all’ età della pensione, giovani dirigenti rampanti giubilati senza troppe cerimonie. Persino qualche indagato per crack. Ma a unire tutti c’è un fattore comune: le liquidazioni da favola che hanno reso meno amara la fine delle loro avventure professionali, magari coronate da un clamoroso fallimento.
Per questo la Confindustria francese corre ai ripari e blocca le superliquidazioni dei manager, una misura che, soprattutto in tempi di crisi, non dovrebbe fare scalpore. Anzi, non dovrebbe neppure essere una notizia. E invece la scelta del Medef, la Confindustria francese, di bloccare le liquidazioni record, i premi stratosferici e le buonuscite d’oro dei supermanager fa rumore. Nell’annunciarlo, la presidente del Medef, Laurence Parisot, ha presentato, insieme al Presidente dell’Associazione francese delle imprese private (Afep), Jean-Martin Folz, un «codice di governance» che dovrà essere adottato dalle aziende quotate in Borsa. Niente di rivoluzionario: retribuzione e distribuzione di azioni gratuite ai dirigenti «dovranno essere commisurate alle performance». Insomma, sì ai benefit eccezionali, ma solo a fronte di buoni risultati. Il che tradotto in soldoni vuol dire che alla Medef stanno a cuore gli azionisti che sono direttamente taglieggiati dai manager: ciò che costoro mettono in tasca vien tolto ai dividendi. Insomma, non si vuole che le diseguaglianze fra top manager e azionisti facciano impantanare il carro capitalista.
E la Confindustria italiana? Tace. Eppure, nel bel Paese, la moda delle liquidazioni stratosferiche ha dei precedenti illustri. Pioniere in materia – come si ricorderà – è stato Cesare Romiti: nel ‘98 ha lasciato il Lingotto con un pacchetto di bonus, tra contanti e azioni, da un centinaio di miliardi di vecchie lire.
Anche i “salari” di lor signori non sono da meno. E sono sotto tiro da anni. In un’intervista a L’Unità di qualche tempo fà, Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, denunciò l’intollerabile ingiustizia di compensi e liquidazioni di manager e supermanager: ma il leader sindacale più che agli azionisti pensa ai lavoratori… «Milioni di euro. Di fronte allo stipendio medio di mille e trecento euro al mese di un lavoratore italiano». A conti fatti i 50 top manager più pagati d’Italia (da Giancarlo Cimoli a Marco Tronchetti Provera, da Gianluigi Gambetti a Vittorio Mincato; da Luca Cordero di Montezemolo a Sergio Marchionne, da Alessandro Profumo a Corrado Passera, da Cesare Geronzi a Fedele Confalonieri) tra stipendi, benefit e stock option il monte emolumenti nel 2005, solo per le principali società quotate in Borsa, e cioè 65 aziende, ha superato i 350 milioni di euro, il salario di migliaia di lavoratori. Con un tasso di crescita rispetto all’anno precedente superiore al 20% contro il 3,8% dei redditi da lavoro dipendente.
Il solco con il resto del Paese è diventato negli ultimi anni sempre più profondo – ha denunciato da tempo Guglielmo Epifani. E per questo lor signori lo descrivono come un bastian contrario, “il signor no”. Avrebbe dovuto dire anche sì il segretario generale della CGIL! Mentre, a fronte di questa sfrontatezza, in Italia il 68% dei lavoratori vive con meno di 1.300 euro la mese, il 35% non arriva a 1.000.
Si dirà: i manager sono sempre stati rapaci. Ma è proprio così? Un aspetto singolare del “capitalismo democratico”, quello, per intenderci, degli anni ’50 e 60’, prima che Reagan e la Thatcher gli sciogliessero le briglie, rendendolo di nuovo selvaggio, lo si registra proprio sul versante della dirigenza delle grandi aziende. Anzi, è un aspetto che esalta il contrasto col capitalismo animalesco che abbiamo di fronte oggi. Ben lo ha sottolineato Robert B. Reich nel suo bel libro sul “Supercapitalismo”, il quale osserva che in quegli anni “sul trono delle più grandi corporation americane sedevano persone che non si stancavano mai di ripetere (secondo l’ideale propugnato da Adolf Berle e Gardiner Means decenni addietro in Società per azioni e proprietà privata) che il loro compito era di trovare un equilibrio tra gli interessi di tutti coloro che subivano l’influenza delle corporation, inclusa la gente comune. «Il ruolo di un dirigente aziendale», disse nel 1951 Frank Abrams, presidente della Standard Od of New Jersey, rispecchiando quello che andavano affermando anche gli altri dirigenti, «è quello di mantenere un equilibrio giusto e funzionale tra i bisogni dei vari gruppi interessati: gli azionisti, i dipendenti, i clienti e la gente comune. «Fortune» esortava continuamente i dirigenti ad assumere nella loro professione una prospettiva di respiro nazionale, a diventare “statista industriale”, una veste in cui questi uomini si trovavano perfettamente a loro agio, avendo molti di loro svolto incarichi governativi di alto livello durante la seconda guerra mondiale e poi fatto parte di numerose commissioni, consigli e comitati pubblici (quando “Engine Charlie” Wilson portò con sé al Pentagono un plotone di dirigenti della Generai Motors, il democratico Adlai Stevenson disse scherzando che i rivenditori di automobili avevano preso il posto dei politici del New Deal). Questi “statisti aziendali” autoeletti facevano spesso relazioni al Congresso; offrivano generosamente il loro tempo e le loro opinioni su ciò che era meglio per il paese. Sotto la guida di Paul Hoffman, al tempo presidente della Studebaker Corporation, di Bill Benton dell’agenzia pubblicitaria Benton & Bowles e di Marion Folsom della Eastman Kodak, si formò un Comitato che spinse per l’approvazione del Full Employment Act del 1946; un atto che poneva la piena occupazione tra gli obiettivi centrali della politica economica del Paese. Inoltre, si impegnò a favore del Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa e aiutò a farlo accettare al resto del paese (lo stesso Hoffman ne divenne il primo amministratore).
Ma – si dirà – erano altri tempi. Ed è vero. Tuttavia, la situazione attuale non è opera del destino cinico e baro né è insita nel capitalismo. Questo, se ben regolato, può essere un tantino più equilibrato se non proprio democratico. Anche perché, se dominano gli umori animaleschi, gli istinti predatori portano - come ha detto Max Gallo - a superare quelle soglie di diseguagilanza che rimettono in discussione il principio stesso di un sistema che si fonda sulle diseguaglianze. Che la foglia di fico, sistemata dalla Confindustria francese per nascondere la vergogna, non sia il segnale della fine della sfrontatezza se non ancora l’inizio di un’inversione di tendenza? Beninteso: non per il bene dei lavoratori, ma perché - come ha paventato il ministro olandese delle finanze Wouter Bos - “se continua così, l’opinione pubblica abbandonerà gli imprenditori”.
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