Moralità del welfare e reddito di cittadinanza

25 Ottobre 2008
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Gianfranco Sabattini

Laura Pennacchi, già sottosegretario al Tesoro nel governo Ciampi, ha pubblicato di recente un volume (La moralità del welfare. Contro il neoliberismo populista, 2008) su un tema che costituisce da tempo oggetto della sua riflessione. Le sue prese di posizione contro chi vorrebbe screditare, da posizioni neoliberiste, il welfare state sono ampiamente condivisibili, mentre le sue perplessità contro una radicale riforma strutturale dell’ormai burocratizzato sistema di sicurezza sociale lo sono di meno. Sul piano teorico, secondo la Pennacchi, una delle critiche neoliberiste è la tesi secondo cui il welfare è ormai un’istituzione obsoleta, o peggio ancora un vero ostacolo al processo di crescita e sviluppo delle economie nazionali. Si tratta, per la Pennacchi, di una critica antistorica, visto che la realizzazione del welfare all’interno dei sistemi sociali democratici ha contribuito alla realizzazione della democrazia sostanziale. L’Europa sarebbe stata il grande contenitore dell’interpenetrazione tra sfera privata e sfera pubblica nella costruzione del sistema di sicurezza sociale, che avrebbe consentito di tradurre “il trittico della modernità – libertà, uguaglianza, fraternità – in un impegno squisitamente morale di giustizia sociale”. Perciò, rimettere in discussione il welfare state significherebbe rimettere in discussione l’interpenetrazione tra democrazia, welfare,  sistemi valoriali e normativi nell’ipotesi che “le sue funzioni coesive possano essere sostituite con altri dispositivi”. Quel che la Pennacchi tutt’al più ammette è l’insufficienza dell’attuale welfare nel riconoscere l’aspirazione dei soggetti alla “distintività ed all’autonomia” nel perseguimento dei loro obiettivi; aspirazione che potrebbe essere, invece, garantita attraverso la realizzazione di un “umanesimo radicale”, sulla scorta della nota tesi di Amartya Sen sullo “sviluppo umano. Tesi questa che rifiuta il “riduzionismo” dell’economia tradizionale in quanto ignorante sia la distintività che l’autonomia degli singoli soggetti. La Pennacchi non accetta che un umanesimo radicale possa essere realizzato con lo strumento del “reddito di cittadinanza”, in quanto questo strumento sarebbe non aggiuntivo, ma sostitutivo di quelli che sinora sono stati posti alla base della costruzione dell’intera “architettura del welfare”.
L’elemento che accomuna tra loro tutte le proposte di introdurre all’interno dei sistemi sociali democratici avanzati un reddito di cittadinanza è l’idea che ogni sistema debba farsi carico di garantire a tutti, indipendentemente dalla loro esperienza lavorativa, la possibilità di acquisire un reddito col quale realizzare il proprio progetto di vita. Le idee intorno alla natura del reddito di cittadinanza non sono univoche; il dibattito riflette due “filosofie sociali”. Una filosofia concepisce il reddito di cittadinanza come una variabile legata agli automatismi di mercato e fondata sulla irrinunciabilità dell’etica del lavoro; è questa la filosofia cui fa riferimento la Pennacchi. Un’altra filosofia concepisce il reddito di cittadinanza come una variabile ”svincolata” sia dal mercato che dall’etica del lavoro. E’ questo un aspetto importante del reddito di cittadinanza; esso vale a rimuovere in maniera assoluta e radicale lo “stigma del pauperismo, della disoccupazione e della precarizzazione” presente in ogni forma di sicurezza sociale burocratizzata e selettiva, com’è l’attuale forma organizzativa del welfare italiano e di gran parte dei welfare degli altri paesi europei.
Se il reddito di cittadinanza deve garantire ciò che il welfare sinora ha negato, ovvero l’aspirazione alla distintività ed all’autonomia dei soggetti secondo la prospettiva dello sviluppo dell’uomo, non basta un semplice allargamento dell’attuale welfare. In altri termini, per il perseguimento dello sviluppo dell’uomo nel senso di Sen, la ridistribuzione del prodotto sociale non può consistere nel miglioramento di tutte le condizioni esistenziali dei soggetti sino ad uguagliare in assoluto le loro capacità (capabilities); se ciò avvenisse, significherebbe realizzare un livellamento di tutte le posizioni personali, con conseguente sacrificio dell’aspirazione alla distintività ed all’autonomia dei soggetti. Allo stato attuale, perciò, se si vuole realmente realizzare un’uguaglianza delle capacità senza il sacrificio dell’aspirazione alla distintività ed all’autonomia, occorre tenere distinte le “risorse personali” dei soggetti (come la salute, le capacità intellettuali, l’abilità fisica, ecc.) dalle “risorse impersonali” (come il denaro). Lo sviluppo dell’uomo e la soddisfazione della sua aspirazione alla distintività ed all’autonomia possono essere assicurati solo con la realizzazione di un’uguale distribuzione delle risorse personali ex post ed un’uguale distribuzione di quelle impersonali ex ante, perché in presenza di una distribuzione del prodotto sociale così realizzata i soggetti possano perseguire i propri obiettivi sulla base delle proprie scelte e delle proprie valutazioni. Allo stato attuale, l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza rappresenta lo strumento efficiente ed efficace per parificare ex ante la disponibilità delle sole risorse impersonali; l’istituzionalizzazione di tale strumento, tuttavia, non può essere realizzata attraverso il potenziamento dell’attuale welfare, ma solo con una riforma strutturale profonda che risulti alternativa all’attuale sistema di sicurezza sociale.

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