Gianfranco Sabattini
Pubblichiamo questo contributo del Prof. Sabattini, mentre si accende il dibattito sulla proposta di legge elettorale Renzi-Berlusconi. Un progetto inquietante per vari motivi: anzitutto perché ripropone in versione diversa il porcellum, senza preferenze e con premio di maggioranza; secondariamente, perché, con un parlamento di nominati, intende rimettere le decisioni in modo autocratico ai leaders dei due poli; infine, perché vuole affossare le forze minori, decretando ope legis, per forza di legge, una spartizione dell’Italia, in alleanza o alternanza, fra Renzi e Berlusconi, padroni dei due schieramenti.
Come si vede, un disegno per molti versi contrastante con la Costituzione, che è garante anzitutto di pluralismo e delle minoranze, tant’è che la nostra Carta ha previsto un sistema proporzionale. Fra tutti i modelli di cui si è parlato in questi giorni, è stato escluso quello tedesco, che contempla un proporzionale corretto, con sbarramento al 5%. Eppure la Germania è il treno d’Europa!
Che dire poi del senato ridotto a camera di secondo grado? Una stravaganza, che non tiene conto del fatto che le assemblee di secondo grado non hanno mai dato buona prova, dalle USL, ai comprensori, alle comunità montane. Sono solo luoghi di compromesso e spesso di intrigo. Anche qui si dimentica che perfino gli States hanno un sistema bicamerale. E il senato è elettivo, rappresenta gli Stati.
Sulla questione torneremo nei prossimi giorni. Ecco ora l’intervento del Prof. Sabattini (a.p.).
La sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale in vigore non ha rigettato solo la logica del premio di maggioranza e delle liste bloccate che espropriano gli elettori del diritto di esercitare il voto di preferenza per gli eletti alle assemblee legislative, ma ha vanificato tutta l’esperienza politico-istituzionale della Seconda repubblica. La responsabilità di dettare un nuovo quadro normativo è stata ora trasferita al Parlamento, il quale dovrà legiferare in materia elettorale limitandosi a restituire all’elettorato attivo il voto di preferenza, per consentire al prossimo Parlamento di affrontare l’eventuale revisione della Costituzione senza che, a tal fine, sia utilizzata subdolamente come “scorciatoia” una sua composizione che non sia lo “specchio” dell’intera società in tutte le sue articolazione sociali, economiche e territoriali. Ma in che modo ciò può essere reso possibile? Per rispondere occorre considerare la “logica aritmetica” dei sistemi elettorali “puri” (trascurando perciò le loro varianti) coi quali possono essere espresse le assemblee legislative, quello proporzionale e quello maggioritario, senza trascurare di storicizzarli; ovvero, senza trascurare le situazioni sociali contingenti alle quali il sistema elettorale prescelto deve risultare il più conforme possibile.
La differenza fondamentale tra i due sistemi indicati sta nel fatto che, mentre il sistema proporzionale mira a riprodurre in un organo di rappresentanza le proporzioni delle diverse parti dell’elettorato, il maggioritario, invece, attribuisce più seggi al partito o alla coalizione di partiti che hanno ottenuto più voti. Lo scopo del sistema proporzionale è quello di garantire una rappresentanza equa; ad esso, però, sono rivolte due critiche principali: è causa della frammentazione partitica, da un lato, e non risolve l’esigenza della governabilità, dall’altro. Per contro, scopo del maggioritario è quello di eleggere una maggioranza stabile di governo, di ridurre la frammentazione partitica, di creare una relazione diretta tra elettori e rappresentanti e di migliorare la qualità dell’attività politica. A quest’ultimo sistema si muove la critica di penalizzare la rappresentatività; al vulnus di quest’ultima va aggiunto l’effetto distorsivo che può portare alla vittoria un partito che, pur essendo risultato primo nel voto popolare, non ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi: è successo, per esempio, in Gran Bretagna nel 1974: i laburisti al 37,2% dei voti, i conservatori al 39,9%; ma al governo sono andati i primi.
Qual è tra i due sistemi quello migliore? Difficile stabilirlo in astratto; entrambi i sistemi presentano dei “pro” e dei “contro” di difficile valutazione, se manca il confronto con le condizioni contingenti alle quali devono essere conformarti. Il parametro di riferimento in base al quale valutare l’efficacia dei due metodi elettorali non può che essere la dimensione della conflittualità dell’intero sistema sociale, ovvero la polarizzazione dal punto di vista ideologico o economico, dei partiti che sono portatori delle istanze dei diversi gruppi sociali esistenti. Su questo punto la storia politico-istituzionale dell’Italia è ricca di suggerimenti illuminanti.
Nell’immediato dopoguerra, l’Assemblea costituente, che ha scritto e approvato la Costituzione repubblicana, si è espressa in favore del sistema elettorale proporzionale. Partiti prevalentemente contrapposti sul piano ideologico e condizionati nella loro azione da un pesante “vincolo esterno” (la polarizzazione del mondo a causa della guerra fredda) hanno trovato appropriato accettare il principio proporzionale, in quanto avrebbe reso possibile eleggere un Parlamento che riflettesse la prevalente polarizzazione ideologica allora esistente, pur in presenza di riserve da parte di autorevoli giuristi, come Piero Calamadrei, riguardo al pericolo che il sistema proporzionale potesse risultare inidoneo a garantire la governabilità del paese; ma è solo successivamente alla prima esperienza elettorale repubblicana che uno dei maggiori partiti, la DC, assieme ai cosiddetti partiti laici minori (PLI, PSDI PRI), ha pensato di poter consolidare il successo ottenuto nelle precedenti elezioni passando dal sistema elettorale proporzionale al sistema maggioritario.
In quell’occasione, il dibattito parlamentare sul disegno di legge che introduceva tale passaggio valse ad evidenziare in tutta la loro portata i vantaggi e gli svantaggi propri dei due sistemi elettorali alternativi; il culmine del dibattito fu raggiunto quando Palmiro Togliatti nel suo intervento alla Camera svolse contro la “legge truffa”, che prevedeva l’assegnazione del 64% dei seggi al partito o alla coalizione di partiti che avessero conquistato il voto favorevole del 50% più uno dei suffragi, una sorta di “lectio magistralis”, dimostrando l’incostituzionalità e la non democraticità di una legge che avesse concesso ad una sola parte politica di avere in Parlamento una rappresentanza tanto superiore a ciò che essa era nel paese. [una sintesi di questo storico discorso è stata pubblicata in questo blog del 1° dicembre 2013].
A prescindere dalle reali ragioni dell’opposizione da parte del PCI, riconducibili alla consapevolezza che la legge maggioritaria era diretta essenzialmente a limitarne il “peso” a causa dei condizionamenti esterni che il paese subiva, sta il fatto che Togliatti nel suo intervento ebbe modo di sottolineare che la proporzionalità elettiva costituiva un principio proprio del liberalismo, secondo il quale i bisogni ed i sentimenti politici dei cittadini devono potersi manifestare in maniera diretta, attraverso la rappresentanza, sino a tradursi ridursi ad un fatto esterno e visivo, tale da trasformare il Parlamento quasi in una “carta geografica” riproducente tutti gli “ambienti” sociali, economici e politici del paese nelle loro proporzioni e senza che gli elementi maggioritari avessero fatto scomparire quelli minoritari. Solo in questo modo, concluse Togliatti, sarebbe stato possibile rendere le assemblee legislative reali specchi della nazione; se la maggioranza fosse stata espressa attraverso un artificio, vi sarebbe stata menzogna e se la minoranza fosse stata preliminarmente messa in condizione di non poter svolgere il suo ruolo vi sarebbe stata oppressione. La “legge truffa” alla fine, pur con l’opposizione di alcuni autentici liberali tra i quali Piero Calamandrei che, in sede di Assemblea costituente aveva mostrato riserve sul principio proporzionale che continuerà a conservare anche successivamente, è stata approvata, ma non ebbe alcun seguito, in quanto la coalizione dei partiti che l’avevano sostenuta non raggiunse il quorum previsto.
Di recente, Luciano Canfora in “La trappola. Il vero volto del maggioritario”, si chiede perché all’inizio degli anni Novanta, con l’avvento della Seconda repubblica, il gruppo dirigente della forza politica che più aveva contrastato il cambiamento del principio proporzionale (ovvero il PCI nel frattempo trasformatosi in PDS) abbia condiviso col massimo impegno il principio maggioritario. Le ragioni sono molte e facili da cogliere, sol che si scorra l’evoluzione della struttura sociale che ha caratterizzato l’Italia durante la Prima repubblica; si può concordare con Canfora nel ricondurre la smania per il maggioritario di quel gruppo dirigente al fatto che, per pura bramosia di potere, esso ha cessato di tollerare di restare eternamente all’opposizione, pensando bene di “andare al governo” giocando d’azzardo con la scorciatoia del maggioritario.
Il risultato delle scelte politico-istituzionali di quel gruppo è stato un “fiasco” ripetuto nel tempo che ha raggiunto il massimo della visibilità con le elezioni politiche del 2013; in questa occasione, il gruppo ha subito una sconfitta umiliante perché, pur avendo vinto le lezioni di un soffio, per la legge elettorale vigente ha “incassato” un ingiustificato premio di maggioranza che non gli ha consentito però di formare un governo, se non attraverso le “larghe intese” con il “nemico” di sempre. La pochezza degli eredi del PCI sta, tuttavia, nel fatto che la smania di andare al governo ha fatto velo sulla loro capacità di comprendere gli aspetti negativi della realtà sociale che erano venuti formandosi con l’esperienza della Prima repubblica, aggravatisi e approfonditisi negli anni successivi, con l’avvento della Seconda.
La ristrutturazione della base produttiva del paese e gli squilibri distributivi che ne sono derivati hanno originato una polarizzazione dei gruppi sociali, alla cui tutela mal si adattava la regola maggioritaria, in quanto questa non favoriva certo la costituzione di assemblee legislative che fossero risultate vero specchio della struttura sociale; ciò ha determinato il risultato delle elezioni del 2013 e la perdita di credibilità di quel personale politico che, avendo smarrito il senso dell’opposizione dei loro predecessori al principio maggioritario, avevano optato per la soddisfazione delle loro aspettative personali.
Ora la Corte costituzionale ha fatto tabula rasa di tutta la recente esperienza politico-istituzionale, investendo l’attuale Parlamento del difficile compito di varare una nuova legge elettorale fondata sul principio democratico “un uomo/un voto”; ma le sconfitte non sembrano aver fatto cambiare parere a chi, come afferma Canfora, in pochi anni è passato “dalla difesa del suffragio universale al principio base delle corse dei cavalli”. Non è un caso, infatti, che l’attuale dirigenza del PD, identificabile nei discendenti del PCI, punti ad un sistema elettorale che continua a conservare in sé il tarlo del maggioritario, sia pure “depotenziato”, nella forma del “doppio turno alla francese”, con l’unico scopo di riuscire a “cannabilizzare” tutto l’elettorato alla sua sinistra, così come aveva tentato di “cannabilizzare” l’elettorato del PSI, dopo aver partecipato all’”uccisione” politica del partito; perseverando nell’errore di negare visibilità politica a tutti i gruppi di cittadini al prezzo di una continua e crescente conflittualità sociale. C’è solo da augurarsi che i “resti” del personale politico dell’ex PCI, nel partecipare all’approvazione di una nuova legge elettorale, si convincano che “commettere errori è umano, ma perseverare…“.
1 commento
1 francesco cocco
21 Gennaio 2014 - 13:55
Concordo in toto. Siamo in presenza del trionfo del belusconismo. Proprio non si vuol capire la rabbia che anima il popolo italiano per un comportamento dei cosiddetti leaders che a lungo lo hanno defraudato e vogliono continuare a defraudarlo il popolo del diritto di eleggere i propri rappresentanti. Con quale motivazione plausibile si pretende di disattendere la sentenze della corte costituzionale? Cosa sono queste furbate di far passare per elezione democratrica l’imbroglio del cosiddetto listino corto. L’intesa tra il sindaco ed il caimano si fonda sull’ intesa che il “padrone del partito” è anche padrone di prevaricare il “cittadino-elettore”. Ho l ‘impressione che siamo in presenza di una leadership irresponsabile che lascia aperta la porta agli avventurismi.
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