Vittorio Foa, una vita a sinistra

22 Ottobre 2008
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Gianluca Scroccu

“Il secolo che muore ci ha dato delle lezioni terribili. Ma vi è oggi, molto più che in passato, un elemento distintivo del benessere e della stessa promozione individuale e sociale: è il sapere, la conoscenza” (Vittorio Foa, Passaggi, Einaudi, Torino 2000, pag. 148).

Con Vittorio Foa non è morto soltanto uno dei padri della Repubblica e uno degli ultimi rappresentanti di quella generazione di giovani antifascisti che sacrificarono la loro giovinezza nelle carceri fasciste (bellissime e struggenti anche nella loro ironia le sue “Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-43”, edite da Einaudi nel 1998), ma è scomparsa un’intelligenza che, anche da ultranovantenne, non aveva mai smesso di pensare a come si deve costruire un mondo più giusto e libero. Proveniente da una famiglia di origine ebraica, aderente a “Giustizia e Libertà”, influenzato dallo spirito dell’intransigenza gobettiana respirato nella natia Torino (anche se su Gobetti non sono mancate sue analisi critiche peraltro interessanti, come quelle contenute nel volume scritto insieme allo storico Carlo Ginzburg “Un Dialogo”, edito da Feltrinelli nel 2003), dopo lo scioglimento del Partito d’Azione era confluito nel PSI. Inizialmente schierato su posizioni autonomiste rispetto al PCI, si era avvicinato successivamente alle posizioni della sinistra interna aderendo alla scissione del gennaio 1964 da cui poi nacque il PSIUP,  lasciato in seguito per partecipare alla nascita del PDUP e della Nuova Sinistra Unita. Senatore per diverse legislature, Foa fu uomo di partito ma anche prestigioso dirigente sindacale della CGIL, lavorando al fianco di Peppino Di Vittorio nella CGIL degli anni Quaranta e Cinquanta. Chi, come me, si è dedicato alla studio della storia del socialismo italiano dopo la Liberazione ha avuto modo di incontrare spesso il suo nome, non solo come protagonista ma anche come storico di quegli eventi, ad esempio nei due importanti volumi, sempre editi da Einaudi, “Il cavallo e la Torre” e “Questo Novecento” (non a caso fu anche professore di Storia Contemporanea all’Università di Modena negli anni Settanta). Ma vorrei ricordare anche il volume “Il silenzio dei comunisti” uscito nel 2001 e scritto insieme ad Alfredo Reichlin e Miriam Mafai, dove Foa si interrogava in profondità e senza reticenze sui limiti e gli errori della sinistra italiana ma senza quella furia iconoclasta che compare in tanti lavori di riflessione autobiografica.  E in quel libro proprio Foa si poneva una domanda che anche a me pare centrale, ovvero perché sia calato un silenzio sui socialisti e la storia del PSI, che invece andrebbe di nuovo studiata per comprendere le ragioni di una rinnovata azione politica progressista nel nostro paese e a livello europeo, oltretutto in questo momento di grave crisi del capitalismo finanziario influenzato dal liberismo frenato. Anche se nell’ultimo periodo Foa aveva sostenuto le ragioni del Partito Democratico che io non ho condiviso, mai ho smesso di leggerlo e di confrontarmi con il suo pensiero. In tutti i suoi libri ho sempre trovato motivi di riflessione e di approfondimento, oltre alla convinzione che non si deve mai smettere di coltivare il dubbio (pare strano in questi mesi dove siamo accerchiati dal cosiddetto “decisionismo” del governo). E all’arcipelago dei progressisti italiani, sempre più autoreferenziale, servirebbe proprio questo per mettersi in discussione e rilanciarsi con forza in una nuova battaglia per la democrazia e la salvaguardia dei diritti costituzionali.

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