Legge elettorale: il problema è politico, non di governabilità

11 Dicembre 2013
Nessun commento


Gaetano Azzariti

Dopo la sentenza della Consulta, ci pare utile, per la riflessione sulla questione della legge  elettorale, riportare questo articolo di un autorevole cistituzionalista, Gaetano Azzariti, tratto da Il Manifesto di ieri.
Che la legge elettorale fosse incostituzionale era fatto notorio. La Corte lo aveva già segnalato in tre diverse pronunce, mentre ben due presidenti della Consulta (prima Franco Gallo, poi Gaetano Silvestri) avevano anticipato l’orientamento dei giudici costituzionali con chiarezza, in sedi anche ufficiali. La decisione del giudice costituzionale sul porcellum è certamente innovativa sul piano procedurale (avendo superato l’eccezione di inammissibilità che aveva sin qui impedito il giudizio nel merito) e sarà assai istruttivo leggere la motivazione per comprendere quali siano i riflessi istituzionali della decisione assunta. Ma nessuno credo possa onestamente affermare che non fosse un esito atteso. Una morte annunciata della legge che ha distorto la rappresentanza e minato il sistema democratico per otto anni. Dovremmo, dunque, tutti apertamente gioire perché la superiore legalità costituzionale ha vinto.
Molte delle reazioni alla decisione della Corte costituzionale, invece, appaiono scomposte, impaurite dalla nuova situazione di recuperata legalità costituzionale. Nel complesso quasi tutte le dichiarazioni risultano improntate ad un fondamentale conservatorismo. Un riflesso d’ordine degli attori politici che mostrano una persistente volontà di non abbandonare la zattera dopo il naufragio, incapaci di vedere un nuovo orizzonte politico possibile.
Se ci fosse un movimento progressista in questo paese (già, se ci fosse!) dovrebbe proprio cogliere quest’ultima occasione per riflettere sugli errori sin qui commessi, sulle promesse mancate, sul modo per uscire da un ventennio di disillusioni. Si dovrebbe rivendicare una soluzione di continuità rispetto ad un passato che ha visto fallire il bipolarismo, che neppure una legge demenziale (oltre che incostituzionale) ha potuto assicurare. È stata l’ossessione governista ad uccidere la possibilità di avere governi stabili.
Dinanzi alla progressiva debolezza della rappresentanza (partiti sempre più eterei), l’involuzione crescente dei rappresentanti (un ceto politico inesorabilmente autoreferenziale) e l’accentuarsi della frammentazione dei rappresentati (sempre più lontani dalla politica), si è immaginato che ci si potesse affidare alle storture del sistema istituzionale. S’è iniziato con l’adozione di un sistema elettorale tendenzialmente maggioritario (il mattarellum) che ha alterato il rapporto tra voti ed eletti, immaginando di favorire la stabilità dei governi anche in assenza delle condizioni politiche e sociali necessarie. L’esito è stato fallimentare. È precipitata la credibilità dei partiti, mentre la dialettica parlamentare è stata annullata. S’è trasformata la fisiologica contrapposizione tra maggioranza e opposizioni in una patologica conflittualità all’interno delle maggioranze obbligate a governare assieme da preventivi accordi elettorali. Coalizioni coatte, definite solo per vincere le elezioni, frutto di tatticismi che nulla avevano a che fare con reali esigenze di governo. L’abbandono della politica è stato il frutto della stagione maggioritaria italiana. È vero che la sinistra - anche quella più radicale - è riuscita nel frattempo ad andare al governo, rompendo quella conventio ad escludendum che ha caratterizzato la storia italiana, ma il costo è stato altissimo. Ci si è dovuti vendere l’anima, perdere il proprio popolo, farsi promotori di un tatticismo che ha finito per prendere la mano. Librati nel vuoto i governi di centro-sinistra hanno perso ogni spinta propulsiva e hanno ceduto costantemente il posto a sempre più agguerriti governi di centro-destra. Il superamento dell’anomalia italiana immaginata da due tra i più rilevanti esponenti politici della nostra storia repubblicana era ben altra cosa: la “quarta fase” di Aldo Moro o il “compromesso storico” di Enrico Berlinguer erano pensati come espressione di una politica autentica, non riconducibile al dominio del tecnicismo elettorale.
Nel vuoto della politica nessuno ha pensato che si dovesse realmente cambiare. Qualcuno ha ritenuto ci si potesse anzi ulteriormente affrancare, rendendo del tutto impermeabile il sistema di governo dal paese reale. Se il corpo elettorale, in un crescendo di disaffezione, non ne voleva più sapere del ceto politico, tanto valeva farne a meno. Sarà forse una “porcata” l’attuale legge elettorale, ma è certamente anche espressione di una certa idea del potere. Quella stessa che aveva sostenuto la cultura della governabilità per la governabilità, la quale di fronte alle difficoltà del reale, anziché cambiare e riflettere criticamente sulle ragioni dell’insuccesso, ha provveduto a rilanciare. Non più solo una distorsione maggioritaria, ma anche l’irrazionalità del premio senza soglia e la roulette della distribuzione dei seggi. Inoltre, davanti alla disaffezione dell’elettore, s’è ritenuto che gli si dovesse sottrarre del tutto la possibilità di scelta dei propri rappresentanti, assegnando alle segreterie dei partiti il compito di nominare i parlamentari in nome del corpo elettorale, con il meccanismo delle liste bloccare. Potremmo limitarci a dire che si è trattato semplicemente di una evoluzione nella fede professata da un ceto politico impazzito: dalla convinzione che chi veniva eletto era unto dal Signore al distacco definitivo del noli me tangere.
Ora, la decisione del giudice delle leggi riporta con i piedi per terra la discussione, avverte che negli ordinamenti democratici le distorsioni che possono essere imposte dall’ingegneria elettorale incontrano dei limiti. Il primo dei quali è che la costituzione non permette di cancellare il corpo elettorale. La rappresentanza politica deve rispondere alla realtà del corpo elettorale, non può invece solo rispondere alle esigenze del ceto politico.
Semplici parole di verità sono quelle che abbiamo letto nel comunicato della Consulta (in attesa di leggere le motivazioni per poter giudicare le argomentazioni giuridiche), che dovrebbero essere prese molto sul serio e che potrebbero segnare una rottura definitiva con le distorsioni del passato. Colpisce invece il tentativo di pressoché tutto il ceto politico di ricondurre questa decisione storica ad un semplice incidente di percorso.
Comprendo che per molti degli attuali attori politici fare i conti con le difficoltà di una politica reale è un problema non piccolo. Dover ripensare strategie costruite esclusivamente per vincere, riducendo ad uno la composizione plurale del corpo sociale, può apparire astruso per chi è cresciuto nel mito della semplificazione. È difficile accettare l’idea che si debba puntare a conquistare gli elettori più che premi elettorali sempre più immeritati. È per questo che si tende a parlare d’altro.
Per alcuni si tratta solo di usare la sentenza della Corte, non ancora depositata, unicamente per andare alle elezioni. Non importa con quale legge. A tal fine si sostiene una tesi tanto ardita quanto superficialmente proposta: il parlamento non sarebbe più giuridicamente legittimato (o almeno non lo sarebbero i parlamentari eletti con il premio ora dichiarato incostituzionale). Ma è un modo per non affrontare la questione reale posta dalla dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale. È abbastanza evidente che l’attuale parlamento è ancora legittimo dal punto di vista propriamente giuridico (può dunque continuare ad operare legalmente in applicazione del principio tempus regit actum), così come appare altrettanto palese che esso è politicamente delegittimato (un caso classico di legalità vs legittimità). Se si volessero trarre seriamente delle conseguenze ci si dovrebbe attendere che questo parlamento da oggi si dedichi quasi esclusivamente (fatta salva la straordinaria amministrazione) a discutere di una nuova legge elettorale in grado di farci uscire dal pantano cui siamo giunti. Lascia francamente assai perplessi sentire invece che il governo si presenterà dinanzi alle camere per rilanciare il suo programma di riforme costituzionali, subordinando ancora ad esse la modifica del sistema elettorale. Ancora una volta al servizio della governabilità e non della rappresentanza.
Secondo altri, poi, saremmo in realtà condannati a proseguire sulla strada segnata nel 1993 dal referendum elettorale. Anche in questo caso qualche precisazione è d’obbligo. Al netto da ogni considerazione propriamente politica e di merito si deve ricordare che - come ha ribadito con una pronuncia recente la Corte costituzionale (sent. 199 del 2012) - il vincolo referendario può essere fatto valere pro futuro (sebbene non sia chiaro sino a quando) al legislatore solo come vincolo «di carattere puramente negativo». Dunque, a tutto concedere, sarebbe impedita l’adozione di un sistema come quello vigente in Italia dal 1948 al 1993. Non certo tutti quei sistemi che garantiscono l’effettività della rappresentanza politica. Alcuni dei quali mai adottati in Italia, dunque certamente ben più innovativi dei sistemi maggioritari riscaldati di cui si parla insistentemente. Così, tanto per dire, un sistema uninominale a turno unico con soglia di sbarramento al 5 % e riparto proporzionale dei seggi costituirebbe una vera innovazione in Italia. Non garantirebbe dal pericolo di larghe intese. Ma questo solo una rinascita della politica può impedirlo. Dovremmo cominciare a imparare che i sistemi elettorali possono solo favorire questa auspicata evoluzione, non possono imporre maggioranza senza popolo.
Un’ultima considerazione. Di fronte alla cecità della nostra classe politica le considerazioni qui svolte potrebbero apparire ad alcuni solo delle parole al vento. Ma in fondo noi lo sappiamo che «the answer is blowin’ in the wind». Se solo qualcuno sapesse ascoltare il soffio del vento.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento