Gianfranco Sabattini
L’austerità non fa solo male alla salute fisica; procura anche limitazioni mentali: è Eldar Shafir a sostenerlo. Questi è uno psicologo americano del Dipartimento di psicologia della Princeton University ed è l’autore, con Sendhil Mullainathan, professore di economia alla Harvard University, di “Scarsità: perché avere troppo poco significa tanto”. Interesse di sempre di Shafir è stato lo studio dell’effetto della povertà sul processo decisionale degli individui, secondo la prospettiva della psicologia del “non avere abbastanza”. Il suo orientamento su questo tema di ricerca risale al momento a partire del quale ha iniziato a studiare le percezioni, gli atteggiamenti e le decisioni di coloro che vivono in povertà, per indagare se l’indigenza induca in loro processi decisionali e comportamenti individuali diversi da quelli degli altri.
Per Shafir, ci sono due scuole di pensiero riguardanti il tema da lui indagato: una afferma che i poveri agiscono razionalmente, ma interiorizzano valori devianti che portano ad una specifica “cultura dei poveri”; l’altra afferma che gli indigenti agiscono in maniera subottinale rispetto a quelli che non lo sono, a causa dell’impatto negativo che l’indigenza provoca sulla loro psiche, che li induce ad effettuare scelte sbagliate. fondato una terza scuola, che sostiene non esservi alcuna differenza nei risultati dei comportamenti dei poveri rispetto a coloro che non lo sono; la differenza sta nel fatto che i poveri fanno gli stessi errori nei processi decisionali come tutti
gli altri, solo che scontano in negativo la disponibilità di un minor margine d’errore rispetto ai non-poveri, per cui le loro decisioni sbagliate conducono a conseguenze peggiori. Ciò perché la “condizione di deprivazione” motiva chi ne è portatore a sopravvalutare ciò di cui non dispone, a trascurare le cose che ricadono all’interno del “proprio dominio” e a rinforzare la propria propensione all’indebitamento.Ora, nel nuovo libro, che Shafir ha scritto in collaborazione con Mullainathan, viene ampliata la spiegazione del perché i poveri rimangono poveri e chi è impegnato, in condizioni di affrancamento dallo stato di bisogno, a realizzare un proprio progetto di vita persiste con costanza nell’intento di perseguirlo; rivelando che i comportamenti subottimali imputabili alla povertà e alla nullatenenza sono causati nei soggetti dai “deficit cognitivi”, provocati dallo stato di deprivazione. Shafir ha dichiarato a Massimo Piattelli Palmarini che lo ha intervistato (“La lettura” del “Corriere” di domenica 10 novembre) che le distorsioni cognitive da stato di povertà inducono comportamenti irrazionali perché la distorsione mentale dei poveri “impone loro di fare tornare i conti oggi, ignorando le conseguenze future”.
Sinora si è pensato che l’irrazionalità dei processi decisionali e dei comportamenti dei poveri fosse solo di origine economica; ora i neuropsicologi spiegano che l’irrazionalità indotta dalla povertà trae origine, non tanto da una disponibilità limitata di risorse in sé e per sé considerate, quanto dalle limitazioni delle capacità mentali, causate dalle ristrette disponibilità materiali; ristrettezze, queste, che accorciano gli orizzonti temporali dei poveri, rendendoli “miopi” e meno creativi, riducendo le loro possibilità di superare la povertà stessa per evolvere verso una condizione di vita più degna di essere vissuta.
L’impatto della povertà sulle capacità intellettive è particolarmente dannoso nelle fasce d’età giovanili. Molti studi di psicologia dell’età evolutiva e di economia hanno già da tempo segnalato che, a partire dal secondo anno di età, il contesto socioeconomico all’interno del quale si cresce condiziona il tipo di opportunità di cui i giovani dispongono in età adulta, a causa del maggior rischio, che corrono rispetto a chi non è povero, di «restare indietro» dal punto di vista intellettivo. A quindici anni, Maurizio Ferrera, in “La Lettura” dell’8 settembre scorso, ricorda che a parità di quoziente di intelligenza misurato a sei anni, chi proviene da famiglie povere accumula un ritardo di due anni quando risponde a test sulla comprensione verbale. La povertà produce cicatrici nello sviluppo cognitivo che restano ineliminabili per tutta la vita; ciò vale in larga parte anche per la disoccupazione.
Shafir e la sua scuola, con le loro ricerche sulla natura del comportamento individuale, mirano a suggerire politiche pubbliche più efficienti contro la povertà; data la loro stretta “banda mentale”, i poveri dovrebbero disporre di facilitazioni burocratiche nella compilazione dei formulari delle domande di aiuti e di contributi di assistenza; ciò al fine di migliorare le loro condizioni di vita.
In conclusione Shafir e la sua scuola hanno allargato il quadro della comprensione delle conseguenze negative che si abbattono sulle condizioni di vita dei singoli soggetti a seguito dell’attuazione di politiche di austerità perseguite nella prospettiva di superare le crisi economiche; ora si sa che la povertà, non solo concorre ad aumentare i suicidi per cause economiche, ma concorre anche a conservare la sofferenza e il patimento in coloro che, per spirito di sopravvivenza, decidono di non suicidarsi. Costoro, però, non possono essere sorretti da aiuti di vario genere, perché l’assistenza portata a vantaggio di chi è portatore di handicap cognitivi non può essere mantenuto in vita con elargizioni caritatevoli, né con facilitazioni burocratiche del tipo di quelle suggerite da Shafir. Per combattere ed estirpare realmente gli esiti della povertà occorre rimuovere “ab imis” lo stigma della povertà e ciò potrà essere realizzato solo con l’attuazione di una giustizia distributiva in grado di garantire a tutti la possibilità di perseguire il proprio progetto di vita non condizionato da limiti cognitivi.
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