Piero Bevilacqua
Per approfondore la riflessione sui fatti tragici dei giorni scorsi in Sardegna, ci sembra utile la pubblicazione di questo articolo di Piero Bevilacqua apparso ne Il Manifesto di ieri.
Di fronte alle cronache angosciose che arrivano dalla Sardegna l’animo è agitato da sentimenti contrastanti. Si vorrebbe tacere per rispetto dei tanti, troppi morti, alcuni dei quali bambinelli, strappati dalle mani disperate dei padri dalla furia delle acque. Ma si vorrebbe anche urlare per la rabbia e lo sdegno, perché ormai da troppi anni sciagure territoriali consimili punteggiano il nostro calendario civile. Chi se ne ricorda? CONTINUA|PAGINA15 In queste ore sembra che il problema dei disastri alluvionali sia nella prontezza degli allarmi con cui far scappare la popolazione da territori che sono diventati una trappola mortale. Ma chi si ricorda del nubifragio a Vibo Valentia, in Calabria, nel 2006, destinato a ripetersi, sempre con morti e danni rilevanti, ai primi di gennaio del 2010? Chi si ricorda delle frane e dei morti di Giampilieri, a Messina, i primi di ottobre del 2009 con tragica replica, nella stessa provincia, il 22 novembre del 2011? E l’alluvione, con la piena del Bacchiglione, che ha sommerso Vicenza e la Bassa Padovana ai primi di novembre del 2010? Abbiamo dimenticato la rovina delle Cinque terre del 25 ottobre 2011, l’alluvione spaventosa che ha colpito Genova il 4 novembre dello stesso anno? E l’acqua che ha sommerso Orvieto e l’Orvietano nel novembre 2012? Ma chi segue le vicende del territorio italiano ha ormai la certezza che l’arrivo dell’autunno porterà morte e distruzione in qualche angolo della penisola. E, come si è visto dall’elenco molto sommario delle alluvioni - che privilegia solo gli episodi più gravi degli ultimi anni - i fenomeni di distruzione territoriale non riguardano solo il franoso Mezzogiorno, ma l’intero habitat nazionale.
Abbiamo ripetuto in passato sino alla noia le cause di questo flagello che è diventato sistematico della recente storia nazionale. D’altra parte, tali cause sono ormai diventate senso comune e perfino la televisione di stato ora le ripete, quando i morti sono ancora a terra, salvo poi dimenticarsene appena l’evento è diventato mediaticamente obsoleto. E tuttavia i fatti di Olbia e di altre aree della Sardegna ci devono far trarre alcune conseguenze di rilievo. La prima di queste, ormai evidente a chi ha memoria e sa guardare la realtà, è che il territorio italiano non regge più il cemento che l’opprime e l’invade da ogni lato. L’abbiamo detto mille volte: il suolo del Bel Paese non ha la stessa solidità di quello della Francia, della Gran Bretagna, della Spagna, della Germania. Paesi geologicamente più antichi e stabili del nostro, densamente popolato e collocato per giunta dentro le turbolenze climatiche del Mediterraneo. Esso dovrebbe essere oggetto di cura, controllo e manutenzione e non costituire l’occasione e la materia prima di una mercificazione ormai insostenibile. Eppure, negli ultimi 10 anni, a fronte di una popolazione nazionale stagnante, sono stati costruiti sul nostro suolo circa 2 milioni e 500 mila edifici, pari a 1 miliardo di metri cubi di cemento. Ma non è solo il cemento, c’è anche l’asfalto. Si costruiscono sempre nuove strade e tangenziali e varianti, mentre altre si prospettano, di grande impatto ambientale, come l’autostrada Orte-Mestre. Ma le strade sventrano colline, spianano campagne, rompono equilibri idrogeologici fragili. Eppure siamo il paese nel quale si sta scavando nientemeno sotto Firenze, per fare passare il Tav, con rischi imprevedibili per una delle città più preziose del mondo. Ricordiamo che la talpa incaricata di scavare è ferma per iniziativa della magistratura, impegnata a indagare sugli illeciti addebitati a politici e amministratori, tra cui l’ex presidente della Regione Umbria. Lo rammentiamo per sottolineare quali sono le ragioni strategiche che in Italia spingono il ceto politico a promuovere le cosiddette Grandi opere.
Queste ultime considerazioni ci portano alla seconda conseguenza da trarre dalla tragedia di questi giorni. È evidente che il nostro territorio, anche in ragione dei mutamenti nel regime della piovosità, è diventato sempre meno sicuro. Senonché il territorio è la nostra casa comune e dunque l’insicurezza è quella di tutti noi, di tutti i cittadini italiani. La nostra incolumità personale, la nostra stessa vita sarà sempre più esposta a rischi anche dentro le nostre città. Dunque, quello che è un antico diritto costituzionale della persona, il diritto alla sicurezza (sicurezza della vita e della libertà nei confronti dei soprusi dello stato e di altri poteri) oggi è insidiato da un versante inedito: quello della fragilità territoriale e della violenza climatica.
È evidente, a questo punto, che l’incultura e l’irresponsabilità del ceto politico nazionale e degli amministratori locali (ma anche di tanti privati cittadini che costruiscono abusivamente) tende a sconfinare verso ambiti di natura penale. Crediamo che su questo punto occorra la riflessione innovativa degli studiosi del diritto. Stiamo entrando in un nuova era, inaugurata dal caos climatico, che renderà problematico il rapporto tra cittadini e ambiente e caricherà di responsabilità inedite chi si candida a governare la cosa pubblica. L’Italia è già un’avanguardia e un laboratorio, non solo l’America dei cicloni. Per il momento dobbiamo incominciare a dire ai nostri governanti e agli uomini politici, che non hanno mai letto una pagina scritta sui caratteri del territorio italiano, che la loro inefficienza nel gestire le risorse disponibili, l’attività di distrazione di investimenti destinati alla cura del territorio e impiegati in grandi opere, sempre più viene a configurarsi come un danno dell’interesse collettivo, tendenzialmente criminale.
2 commenti
1 Renato Monticolo
23 Novembre 2013 - 19:01
Credo che all’articolo di Bevilacqua, tecnicamente e politicamente perfetto, possa fare da contrappunto emotivo questo di Mario Sechi, sardo di Cabras, che ricorda le stragi e le disavventure di una Sardegna che già cinquanta anni fa “accadimenti millenari”Morte per acqua di Mario Sechi
Melma, diluvio, sabbie, campane, burocratica crudeltà. Sardegna remota, memorie di un bimbo
“Tutto a posto?”. “… sì, tranquillo, qui è a posto, altrove piove l’inferno”. Clic. Anche quando sei uomo e non più bambino e il cielo piange e lancia saette, la mamma ti rassicura e fa niente se “babbo sta controllando i pozzi in cortile, tirano bene” e “a Uras hanno bisogno d’aiuto”. A Cabras l’acqua è sempre stata vita e morte, siamo abituati a darle del lei e mai del tu, a diffidarne, a lasciare che si sfoghi, ma lontano da noi. Il primo cadavere della mia vita lo vidi che ero bambino, un pescatore dello Stagno, affogato in una notte fradicia e tempestosa insieme a un compagno. Non l’ho mai dimenticato. Morte per acqua. Scorre nelle immagini del presente, pixel, bit e clic ossessionante e narcotizzante. La foto di una bisarca carica d’automobili attraversa una galleria tra i flutti, sulla fiancata c’è una scritta gialla, beffarda: “Tirso”. E’ il nome del più importante fiume della Sardegna, dove da ragazzini andavamo a tuffarci, troppo piccoli per immaginare la piena che nel 1918 travolse San Vero Congius.
Spazzato via. E’ una Sardegna remota che va e viene nelle sue disgrazie, un’eco lontana che riemerge dal passato, sono le grida strazianti dei sanveresi che arrivano fino al paese vicino di Zerfaliu. Il Tirso è generoso. Trasforma la terra in oro. E morte per acqua. A Uras quella terra che fu palude oggi torna acquitrino, melma e sabbia mobile in una notte dove tutto è liquido e contagioso, anche le carcasse degli animali, rovesciate, come in un macabro banchetto della natura, sacrificati sull’altare de Su Maimone, il demone che in Sardegna governa la pioggia, eredità del tempo fenicio, presenza da pregare e temere, riverire e scacciare, divinità terribile che governa la fertilità breve della terra e il tempo lungo della siccità. Terra arida, sabbiosa, argillosa, granitica. Ora i nuraghi sono isole nell’Isola, emergono da un lago che il giorno prima non c’era. Quando questa maledizione sarà evaporata, le loro pietre ci saranno ancora: testimonianza di un tempo in cui gli uomini costruivano per durare millenni. Al telefono un amico si sfoga: “Mario, un ponte inaugurato due mesi fa è andato giù, è una vergogna…”, è il presente di cartapesta, travolto dalla storia, una severa maestra che qui non riesce a trovare buoni alunni. La Gallura non dorme. I contadini del Campidano asciugano lacrime di fango. Cagliari si specchia nella spiaggia sottomarina del Poetto. Siamo qui. Ci serve un giaciglio per la notte, aprite le case, siamo quasi tremila a cercare un letto e un fuoco acceso. Abbiamo il freddo nelle ossa, scaldateci con un abbraccio e una parola, “fratelli”. Morte per acqua. E’ il sinistro dejà vu del tambureggiante dibattito. “Abbiamo avvisato delle criticità”. “Il sistema di allertamento nazionale ha fatto il suo dovere”.
“Emessi avvisi e bollettini”. “Il Consiglio regionale è riunito”. Ah, che sollievo. Memorie di un bimbo. Se pioveva a lungo, se gli argini stavano per cedere, se il fiume si gonfiava e lo Stagno ruggiva, non c’erano scartoffie che passavano tra le scrivanie, ma si sonanta is campanas e si ghettada grida, si suonavano le campane e lanciavano “le grida”. Dov’erano le grida e chi ha suonato le campane la notte scorsa? Si interviene dopo. Parole d’ordine e liturgia del pronto soccorso. “Liberate le linee wi-fi”, “stiamo arrivando”, “abbiamo deliberato ieri lo stato di calamità”. Stop. Tanto prima della punizione biblica bisogna solo compilare ordinanze che nessuno legge, carta utile per i magistrati che accerteranno l’irresponsabilità senza sanzione perché “è un’alluvione millenaria”. E’ un girone di burocratica crudeltà che va così perché da sempre così va. E’ la pratica del governo di Roma che stanzia l’aiuto e grazie, mille grazie di tanta generosità, l’offerta per curare la calamità sofferta. Che gelido presente, battuto a tavolino da un fatalismo che ha la potenza della divinità. Nella memoria brillano tracce di una cantilena antica della mia terra, il sacrificio di un uomo in un pozzo: “S’abba no naschet si sambene non paschet”, l’acqua non nasce se il sangue non pasce. Nella piena rotolano uomini, donne, bambini, animali. E’ tornato Su Maimone con il suo spettacolo: la morte per acqua.
2 marga
25 Novembre 2013 - 11:39
io volevo solo dire: SU STANGIONI e Chicco Porcu.
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