Crisi finanziaria e crescita dell’ineguaglianza

20 Ottobre 2008
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Gianfranco Sabattini

La crisi dei mutui avrà sicuramente delle ripercussioni negative a livello distributivo del prodotto mondiale tra tutti i sistemi economici integrati nel mercato internazionale; tali ripercussioni, nei giorni in cui le borse crollavano, non sono mai state oggetto di seria riflessione. Esse, invece, meritano un’attenta considerazione, perché, in prospettiva, ove non fossero contrastate con la stessa solerzia con cui a livello mondiale si è deciso di erigere un muro antirecessivo contro il peggioramento della crisi dei mercati finanziari, la crisi prossima ventura, indotta dalle ineguaglianze distributive, sarà di ben altro segno per tutti i sistemi economici del mondo. Per capire la gravità dei problemi causati dalla ineguale distribuzione delle “chances di vita”, sia all’interno dei singoli sistemi sociali, che a livello internazionale vale la pena di soffermarsi sul contenuto di un importante saggio di Thomas Pogge.
La crescita economica costituisce la condizione necessaria per assicurare benessere ai popoli del mondo; perché sia anche sufficiente occorre che il benessere, a livello intranazionale ed a livello internazionale, sia distribuito con equità. Per Pogge, professore di filosofia alla Yale University, nel dibattito in corso sull’economia mondiale ricorre di continuo l’affermazione che la crescita è un bene; si afferma che la crescita porta al benessere e un maggior benessere è auspicabile soprattutto per i paesi poveri. Un esame più attento di queste argomentazioni alla luce della recente esperienza porta a conclusioni molto diverse.
La crescita può certamente favorire ricchi e poveri e, allo stesso tempo, ridurre la povertà; ma fino a che punto la crescita del benessere produce un tale effetto? Pogge non ha dubbi in proposito: la crescita aumenta il benessere e diminuisce la povertà sin tanto che il benessere si distribuisce equamente tra gli esseri umani. Si tratta di un’affermazione non pacifica nella storia della teoria economica. La tradizione vuole che gli economisti abbiano sempre visto con favore la crescita economica, indipendentemente dal modo in cui essa si distribuisce tra tutti i soggetti componenti il contesto sociale all’interno del quale si verifica. Forse, tutto ciò accadeva all’inizio della rivoluzione industriale circa 200 anni addietro, quando tutti i paesi erano poveri; oggi la distribuzione degli incrementi di ricchezza tende ad essere ineguale. Se si considera l’incremento della crescita di un dato paese povero tra quelli presenti nel mercato mondiale, non sempre tale incremento rappresenta per quel paese un reale progresso. Si tratta di un progresso se l’incremento migliora le condizioni di chi sta peggio, mentre non si tratta di un progresso se quell’incremento viene prevalentemente “catturato” dai gruppi sociali dominanti. Tutto ciò può essere illustrato attraverso l’esame dell’evoluzione recente di un paese come la Cina. Questo paese, nell’arco di un periodo di tempo relativamente breve, ha raggiunto elevati tassi di crescita economica, accompagnati da un forte aumento dell’ineguaglianza distributiva intranazionale; molti ritengono che sarebbe ingiustificabile lamentarsi di questa tendenza, dato che, malgrado l’aumento dell’ineguaglianza distributiva, si è avuto anche una diminuzione della povertà. L’aumento dell’ineguaglianza, però, non è un semplice parametro economico che può essere modificato discrezionalmente; infatti, coloro che si sono arricchiti hanno anche visto aumentare la loro influenza sociale, per cui una futura ridistribuzione troverà molti più ostacoli di quanto non ne abbia trovato originariamente la distribuzione ineguale del benessere seguito alla crescita economica. Ciò che è accaduto in Cina è sicuramente accaduto anche in altri grandi paesi (India, Brasile, ecc.) sino a poco tempo addietro in ritardo sulla via della crescita, per cui i limiti dell’economia cinese congiunti a quelli degli altri grandi paesi che hanno vissuto la stessa esperienza tramuteranno la loro ineguaglianza distributiva intranazionale in ineguaglianza globale per tutti i popoli del mondo. Infatti, il successo di Cina, India, Brasile ed di altri paesi ancora, supportato dalle esportazioni, è avvenuto a spese dei paesi poveri; ma le esportazioni di quei paesi, in virtù della loro forza economica, possono “saltare”, al contrario dei paesi poveri, le barriere che normalmente oppongono i paesi ricchi. D’altra parte, le esportazioni di Cina, India, Brasile possono avere successo battendo la competizione dei paesi poveri, mentre l’aumento delle loro importazioni di materie prime strategiche (quali il petrolio) contribuiscono a farne aumentare i prezzi, rallentando così la crescita dei paesi poveri dipendenti dalle importazioni di quelle materie prime.
In conclusione, per Pogge, gran parte degli squilibri oggi esistenti tra paesi ricchi e paesi poveri a livello globale potrebbero essere evitati attraverso accordi internazionali più equi. Ciò significa che dal punto di vista dell’equità, la crescita a livello globale ed a livello dei singoli paesi dovrebbe essere valutata in funzione degli effetti che l’ineguale distribuzione del benessere provoca sulle condizioni economiche di chi sta peggio. Una distribuzione più equa potrebbe anche comportare una limitazione della crescita economica complessiva nel breve periodo; ma il sacrificio sarebbe compensato nel lungo periodo in termini di riduzione della povertà. Si tratta di una conclusione per certi versi rivoluzionaria, in quanto a differenza di quanto si era soliti pensare nel passato, ovvero che l’ineguale distribuzione fosse strettamente connessa all’efficienza economica, le condizioni attuali di funzionamento dei sistemi economici impongono, come si diceva all’inizio, che la massimizzazione dei risultati in termini di crescita debba essere subordinata all’equità della sua distribuzione. Con ciò, la Teoria delle giustizia di John Rawls, che considera equa una distribuzione anche ineguale del benessere purché siano avvantaggiati coloro che stanno peggio, cessa di rimanere, come alcuni sostengono, solo una teoria della povertà, per divenire parte integrante della teoria economica, esprimente la condizione sufficiente per valutare l’ottimalità della crescita.

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