Per una buona politica ci vuole una “religione civile”

19 Ottobre 2013
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Gianfranco Sabattini

Il concetto di religione civile sorge in età moderna e costituisce, come spiega Gian Enrico Rusconi, l’insieme degli elementi stabili della cultura religiosa di un popolo integrati nel sistema politico, in modo tale da legare i cittadini alla comunità, pur non pregiudicando la libertà di fede. Riferendosi all’Italia, Giovanni De Luna, recentemente autore di “Una politica senza religione”, osserva che il Paese, dopo essersi schiantato “sugli scogli della crisi economica” ed aver reciso il recinto che delimita lo spazio in cui gli interessi che lo tengono insieme hanno perso il loro ruolo di legare “il singolo alla società in un rapporto di dipendenza e di identificazione”, ha sperimentato la contemporanea eclissi del ruolo e della funzione della sua classe politica.
La religione civile, per De Luna, conservando la coesione sociale e l’identità di un paese, chiama in causa sia lo Stato che la politica. Dacché l’Italia è pervenuta all’Unità, la religione civile ha cambiato spesso i suoi contenuti, in quanto il sistema politico ha dovuto “fare i conti” con il modo in cui, di volta in volta, il Paese si è misurato con il tentativo di “fare i cittadini italiani” e con il modo in cui i diversi progetti politici che si sono succeduti nel tempo hanno inteso stabilire uno specifico rapporto col passato.
In Italia, però, a differenza di quanto è accaduto in altri paesi, l’elaborazione di un qualsiasi progetto di religione civile “ha dovuto inevitabilmente confrontarsi con l’ingombrante presenza di un cattolicesimo molto radicato nella sfera pubblica, con conseguenti sovrapposizioni ed intrecci” che, si può affermare, hanno assunto spesso, e continuano ancora ad assumere, la natura di ingiustificate intromissioni nel governo della società civile. Prescindendo dalla realtà italiana, le invasioni di campo del sacro nel profano ci sono sempre state sin dall’origine del mondo moderno; è stato infatti questo mondo a separarsi in modo netto dalla religione, attraverso la tutela della libertà di coscienza di ogni singolo individuo e del pluralismo sia etico che politico; da allora in poi, per un lungo periodo successivo, il sacro e la politica hanno costituito due mondi caratterizzati, afferma De Luna, da un’”alterità oppositiva”, segnata dalla propensione di ognuno ad avvalersi delle risorse dell’altro a proprio vantaggio. Ciò è valso ad affermare la negazione di qualsiasi riferimento al sacro da parte del mondo politico, ma anche a negare qualsiasi forma di sacralizzazione della politica; le tragedie dei regimi totalitari del Novecento stanno a testimoniare l’inadeguatezza della coesistenza di fedi e di religioni civili espresse da dogmi e da verità assoluti.
In particolare, una religione civile che intende corrispondere alle esigenze di un mondo politico democratico non può includere dogmi, in quanto deve scaturire da un dinamismo che porti i suoi elementi costitutivi ad adeguarsi alle vicende della storia e alle svolte politiche e sociali che hanno caratterizzato, o caratterizzano, il contesto sociale in cui essa è “professata”. In democrazia, la laicità, cioè la separazione del sacro dalla politica, non è un’opzione privata, ma è la base di un’identificazione di tutti i componenti la società in un sistema politico fondato sulla libertà di coscienza e sulla libertà di critica; in conseguenza di ciò, su questa realtà una religione civile deve misurare il suo grado di autorevolezza e di accettazione da parte di un intero popolo politicamente organizzato. Nel caso dell’Italia, la crisi economica e l’abbattimento dello steccato delimitante lo spazio laico hanno consentito alla religione cattolica di fare irruzione nello spazio pubblico, orientando gli assetti istituzionali, le regole comportamentali dei cittadini e, in generale, i comportamenti politici; tutto ciò è valso a consolidare la tendenza a considerare il cattolicesimo come l’unico collante in grado di tenere insieme gli italiani, favorendo “opacità morale e inadeguatezza culturale”, che hanno di fatto impedito al sistema politico di risolvere autonomamente i problemi della società civile. Di fronte a questa situazione e alla “resa incondizionata” del mondo politico italiano alle pretese della Chiesa cattolica, De Luna conclude sconsolato osservando che forse l’unico modo in cui lo spazio pubblico può ricuperare la propria autonomia è il populismo (come sembrano suggerire gli esiti delle ultime consultazioni elettorali) e che agli italiani per risvegliarsi come nazione non resta che vergognarsi del loro stato presente, per orientare le residue forze delle quali dispongono al loro rinnovamento.
Forse la causa delle condizioni in cui versa lo spazio pubblico italiano non sta tanto nella crisi economica recente, quanto nel modo in cui l’Italia stessa si è formata; un processo unitario, quello italiano, che il suo facitore (Cavour) non ha saputo immunizzarlo da un “vizio genetico”, che ha stravolto il progetto di voler realizzare uno Stato liberale secolarizzato; l’Italia post-risorgimentale ha portato con sé tale vizio, espresso dall’opposizione della Chiesa all’Unità della nazione italiana, minandone la capacità di tenuta sin dall’origine. Sulla debolezza dello Stato italiano, infatti, la Chiesa ha sempre fondato la cura dei propri interessi temporali facendo costantemente valere sul mondo politico il peso del magistero cattolico come forza salvifica generale nei confronti delle divisioni pluralistiche della società civile. Tale peso è stato esercitato dalla Chiesa cattolica anche dopo la fine del secondo conflitto mondiale e l’avvento della Repubblica e, ignorando lo spirito del Concilio Vaticano II, ha riproposto costantemente la negazione di due aspetti irrinunciabili della società democratica secolarizzata: la condanna del relativismo etico e politico e l’esistenza di materie civili “eticamente non negoziabili”, per la regolamentazione delle quali il legislatore civile è stato fortemente condizionato dalle concezioni sacrali della Chiesa.
Certamente uno spirito diverso sembra emergere dall’attuale pontificato e dall’impegno che il nuovo Papa sembra voler assumere nei confronti della società civile; ciò che però preoccupa sono gli atteggiamenti dei cosiddetti “atei devoti”. Questi, coinvolti emotivamente dai discorsi di Papa Francesco, si affidano a Lui per rimettere in moto “gli uomini di buona volontà”, per sottrarre l’Italia agli esiti della crisi, non solo economica, che da tempo l’affligge; farebbero meglio, invece, a mobilitarsi in prima persona con proposte e progetti più credibili e laici di quanto non siano stati quelli presentati in passato o quelli che gli stessi “atei devoti” sono soliti proporre nella fase attuale.

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