Gianfranco Sabattini
Nel 2010 abbiamo assistito a tante riflessioni sull’Unità d’Italia. Molte francamente rituali. Il tema è però di permanente attualità. Ecco alcune interessanti notazioni di Gianfranco Sabattini, autorevole economista del nostro Ateneo e autore di una bel saggio sul pensiero di Mazzini.
Il 20 febbraio del 2012 si è tenuto presso l’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani un dibattito su Luciano Cafagna, morto nel febbraio dello stesso anno; l’incontro è stato organizzato, insieme alla Treccani, da Mondoperaio, dal suo direttore Luigi Covatta, da Libertà eguale, da Le ragioni del socialismo e da Reset. Mondoperaio, che ha raccolto e pubblicato gli interventi nel numero 5/2012 della rivista, ha successivamente autorizzato la loro riproduzione sul Dossier n. 131 di Reset.
Luciano Cafagna, militante socialista, ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore ed è stato l’autore, tra i molti, di un importante libro su Cavour, che ha avuto diverse dizioni, le ultime delle quali avvenute in vista del 150° anniversario dell’Unità dell’Italia. Nella ripubblicazione degli atti del dibattito sul Dossier di Reset, il direttore Giancarlo Bosetti nel suo intervento, “Il miracolo dell’Unità”, formula, sulla base del libro di Cafagna, delle valutazioni sulla figura e l’opera di Cavour da indurlo a lamentare l’assenza, nel momento presente della vita politico-sociale del Paese, di una figura di politico della statura e dello spessore del “facitore dell’Unità”; egli però manca di considerare che Cafagna chiude il suo libro su Cavour con un capitolo finale che, riferendosi al risultato dell’opera del politico piemontese, intitola: “Una vincita in rosso”.
Cafagna spiega il processo unitario dell’Italia mediante il ricorso alla metafora di una “partita a sei”; nella descrizione dello svolgimento della partita, metafora più azzeccata non poteva essere pensata, se si considera il “vizio” nutrito in gioventù dal suo protagonista principale. Cafagna mette in evidenza di Cavour, non tanto le doti di uno statista capace di portare a compimento decisioni collettive sovrane e condivise in funzione di un nobile scopo futuro; quanto la weberiana aspirazione al potere propria di un politico “senza orizzonte valoriale” che, professionalmente, ma senza scrupoli, la legittima attraverso il governo di una situazione storica determinata (la realizzazione dell’Unità dell’Italia), senza alcuna valutazione della qualità dell’esito della sua attività, mancando di considerarne i possibili aspetti negativi destinati ad essere lasciati in eredità delle generazioni a lui successive.
I partecipanti al gioco, che si è svolto nell’arco di tempo compreso tra il 1848 ed il 1870, sono schierati in due campi: quello della conservazione e quello del mutamento. Del primo, tutto sotto l’influenza dell’Austria, fanno parte l’Impero asburgico, il Papato e tutti i restanti Stati pre-unitari, salvo il Piemonte; il secondo comprende il partito moderato, con aspirazioni costituzionali e liberali, il partito democratico, che aspira a realizzare una repubblica nazionale unitaria con forti propensioni ad innovare sul piano dei rapporti sociali, e il Regno sardo-piemontese, dotato di scarse forze militari, ma motivato da apprezzabili aspirazioni espansive.
I partecipanti al gioco, però, dispongono di differenti livelli di mezzi, riconducibili alla forza militare ed alle risorse morali, ideologiche e di mediazione politica; tutto il monte delle risorse è al netto di interessi economici (che Cafagna assume di poco conto, mentre in realtà esistono e come), individuabili principalmente, ma non solo, nella propensione di uno dei giocatori (il Regno sardo-piemontese) ad allargare i propri mercati. Dopo lo scontro iniziale (la prima guerra d’indipendenza), restando nella prospettiva della metafora del gioco, appare evidente che il monte complessivo delle risorse a disposizione del campo del mutamento non è adeguato per avere ragione di quello della conservazione. Lo stallo in cui il campo del mutamento è impantanato impone la necessità di porvi rimedio, per compensare soprattutto il deficit di forza militare. Lo stallo, afferma Cafagna, è superato da Cavour mediante la “straordinaria mobilitazione delle risorse di mediazione”, che consente di ottimizzare l’impiego di tutte le restanti risorse a disposizione.
Il riconoscimento dell’importanza delle risorse di mediazione politica è uno degli aspetti più significativi che caratterizza le modalità d’impiego da parte del Conte piemontese di tutte le risorse disponibili nel decennio compreso tra il 1849 ed il 1859. Ciò che connota in senso esclusivo tali modalità è l’inserimento nello “scacchiere internazionale” del “decennio di preparazione” del processo unitario; è questo il risultato cui perviene Cavour, che, dopo essere riuscito a monopolizzare l’esercizio delle risorse politiche di uno dei giocatori (il Regno sardo-piemontese), riesce nell’intento di coinvolgere un attore esterno (l’Impero di Napoleone III), il cui ruolo ed il cui peso militare risultano decisivi per la vittoria del campo del mutamento. Ma, secondo Cafagna, con le risorse di mediazione politica delle quali dispone, l’artefice massimo della vittoria riesce anche nell’intento di tenere a bada sia i moderati ed i democratici, che l’attore esterno.
Sta di fatto, però, che l’eccesso di mediazione politica profusa senza scrupoli farà dell’Italia, come lo stesso Cafagna mette in evidenza, il Paese meno autosufficiente fra tutti i grandi Stati europei, perché frequente e continuo nella storia unitaria sarà il ricorso all’uso del “fattore esterno” per la soluzione dei problemi interni. Ciò perché, quanto si è costruito nel Paese “lo si è fatto con le arti, a volte geniali, a volte solo mediocri, della mediazione e del compromesso…fino ai nostri giorni: i quali ultimi, purtroppo, non possono offrire ancora, a quelle arti salvifiche, che nomi dimezzati”. Cavour diviene così il simbolo del “Risorgimento incompiuto”, fondando la leggenda di un’Italia che sarebbe stato possibile realizzare, solo se l’artefice dell’Unità realizzata non fosse scomparso prematuramente, rappresentando emblematicamente con la sua morte quello che gli italiani non sono, ma che avrebbero potuto essere.
Proprio perciò, a causa della “vincita in rosso” di Cavour nel “gioco a sei” che ha portato alla realizzazione dell’Unità, l’Italia, disponendo di cittadini quali quelli che avrebbero potuto essere, ma che non sono, non può rimediare alle proprie insufficienze senza ricorrere all’uso continuo del “fattore esterno”; come dimostra la storia del nostro Paese di questi ultimi anni, la soluzione dei problemi interni può essere solo possibile con l’aiuto mai disinteressato dell’estero, per via dei limiti, ereditati dal passato, del non essere l’Italia una nazione coesa ed autosufficiente.
Per Bosetti, l’impresa di Cavour è stata poco meno di un miracolo, per il modo in cui è riuscito “a trasformare in oro i metalli che aveva a disposizione attraverso il valore aggiunto delle sua arte politica, arte combinatoria dei particolarismi, virtù dello stare in equilibrio tra i narcisismi altrui senza fare pesare il proprio”. Di quest’arte, afferma Bosetti, si continua ad aver bisogno e c’e da augurarsi che nella congiuntura presente del Paese il desiderio di un “miracolo” del tipo di quello compiuto da Cavour, “scateni i talenti capaci delle più difficili soluzioni”. La lettura complessiva del “Cavour” di Cafagna non conduce però alle conclusioni fideistiche di Bosetti; perché, se l’opera del Conte piemontese è stata realmente un quasi-miracolo, i suoi esiti ultimi, come Cafagna evidenzia, sono stati negativi, a tal punto da auguraci che i problemi di oggi non siano risolti da “risorse politiche” del tipo di quelle espresse da Camillo Benso Conte di Cavour, perché le generazioni a venire non abbiano anch’esse a lamentarsi di vivere in un Paese privo di identità.
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