Crollo delle borse. Perché?

13 Ottobre 2008
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Gianfranco Sabattini

I mutui “sub-prime mortgage” (alla lettera, mutui ipotecari ad alto rischio) pesano negli USA per il 10% del mercato del credito immobiliare. Dall’anno scorso i giornali stanno dedicando ampio spazio alla crisi di questo mercato. La maggior parte dei media ha però sorvolato sulle procedure finanziarie attraverso le quali si è giunti alla crisi finanziaria attuale. Per comprendere i reali motivi di questa crisi, ci si deve riferire innanzitutto al mercato immobiliare statunitense, ma anche agli operatori che hanno causato la diffusione a livello mondiale di quanto è accaduto all’interno di quel mercato; in altri termini, ci si deve riferire anche agli operatori che hanno creato e gestito i cosiddetti “derivati” e che hanno alimentato le bolle speculative il cui “scoppio” ha provocato il crollo delle borse valori nel mondo.
All’interno del mercato immobiliare statunitense, sin tanto che il rapporto tra banca e prenditore ha conservato la natura di rapporto diretto, sono stati tradizionalmente esclusi i mutuatari ad alto rischio; ciò ha consentito che alla minima percezione del rischio di insolvenza, la banca non esitasse a ricorrere ai ripari per salvaguardare la conservazione del proprio equilibrio finanziario. I due elementi che hanno allentato il rapporto diretto tra banca e prenditore sono stati il basso livello del tasso ufficiale di sconto della Banca di emissione americana, che ha reso possibile un’ampia disponibilità di liquidità, e l’espansione del mercato dei derivati. L’ampia disponibilità di liquidità ha spinto le banche ad aprirsi al 10% dei potenziali mutuatari del mercato immobiliare, tradizionalmente esclusi dai prestiti bancari, concedendo loro mutui a basso costo con il rinvio del ricupero della differenza tra il tasso di interesse corrente ed il tasso sulle prime rate dei mutui concessi ai trenta anni successivi. In tal modo, confezionando mutui su misura per i clienti meno abbienti, ha avuto inizio negli USA un boom del mercato immobiliare, per cui in caso di insolvenza è stata facile la soluzione fondata sulla vendita della casa per un prezzo molto più alto di quello iniziale (pari a quello del mutuo) e con il ricavato rimborsare il mutuo ed iniziare una nuova operazione immobiliare. Questa procedura ha continuati finché una percentuale molto elevata dei sottoscrittori dei mutui subprime ha smesso di pagare le rate dovute, mandando in crisi le banche specializzate nel settore del credito immobiliare che avevano espanso il loro fatturato sulla base delle previsioni inaffidabili (e a volte prezzolate) della agenzie di rating. Successivamente, sono entrate in crisi le cosiddette banche d’affari (Fannie Mae e Freddie Mac) specializzate nell’assicurazione dei mutui concessi attraverso l’”impacchettemento”, assieme ad altri titoli, delle obbligazioni corrispondenti ai mutui stessi in nuovi titoli, i derivati, che poi vendevano agli investitori, attratti dall’alto rendimento dei titoli originari “sottostanti” (cioè, quelli che componevano i derivati); tutto ciò, con la regia delle agenzie di rating, che, anziché agire al servizio degli investitori, hanno agito, invece, al servizio dei gestori di fondi di investimento contenenti i derivati delle banche d’affari.
I derivati delle banche d’affari sono stati oggetto di contrattazione in molti mercati, ma soprattutto nei marcati “over the counter” (alla lettera, mercati alternati, nel senso di mercati finanziari alternative alle borse valori creati al di fuori di ogni forma di regolamentazione). Gli alti rendimenti dei derivati, oltre a stimolare l’orientamento verso di loro degli investitori istituzionali (banche ed altre istituzioni finanziarie che investivano in derivati ad alto rendimento per ragioni di copertura contro possibili perdite derivanti da loro operazioni ad alto rischio) hanno attratto anche gli speculatori che hanno concorso a “gonfiare la bolla speculativa”. Questa si è espansa sin tanto che il mercato immobiliare degli USA ha funzionato regolarmente; gli alti rendimenti dei derivati, che avevano tra i titoli sottostanti le obbligazioni dei mutui immobiliari erogati, hanno attirato gli speculatori che per investire in essi si sono indebitati; è cresciuta così la domanda di quei derivati che ha fatto aumentare ulteriormente i rendimenti e che ha motivato gli speculatori ad indebitarsi ulteriormente nei confronti delle banche. Così è stato, finché una quota consistente dei titolari dei mutui sono divenuti insolventi, facendo precipitare i valori dei derivati il cui mercato nel frattempo si era saturato. Ciò ha determinato il panico presso gli speculatori che si sono così precipitati a liberarsi dei derivati in loro possesso sino a provare il crollo del loro valore di mercato, dando origine all’avvio dello “sgonfiamento” della bolla speculativa. Lo scoppio della bolla non ha coinvolto solo gli speculatori e quegli investitori privati che sono stati anch’essi attratti dagli alti rendimenti dei derivati, ma ha anche coinvolto le banche, sia per gli investimenti in derivati da esse direttamente effettuati, sia per i crediti concessi agli speculatori.
Il crollo del mercato immobiliare statunitense a causa delle insolvenze dei mutuatari ha mandato in “bancarotta” i portatori di derivati ed ha messo in stato di instabilità le borse valori di tutto il mondo. Di chi è la colpa? Degli investitori “ingenui”, oppure delle banche d’affari e delle agenzie di rating “imbroglione”? La colpa è del conato di neoliberista-turbocapitalista, che, in assenza di un’efficace regolazione dei mercati, è valso a scatenare, sotto forme diverse rispetto al passato, i tanto deprecati animal spirit di keynesiana memoria. A sostegno dell’”esproprio con destrezza” operato dalle banche d’affari e dalle agenzie di rating “imbroglione” ai danni dei investitori “ingenui” non serve evocare l’aforisma di J.Kenneth Galbraith, secondo il quale il bello del capitalismo starebbe nel fatto che in esso ogni tanto vi succede qualche evento che serve a separare il denaro dagli “ingenui”. Ovviamente, preso alla lettera e fuori contesto, l’aforisma degrada a gag di pessimo gusto, sino a cessare di esprimere ciò che con esso Galbraith intendeva davvero esprimere, ovvero la necessità che il mercato sia sempre messo nella condizione di consentire la cosiddetta “contendibilità dei fattori produttivi”; infatti, all’interno di un mercato ben regolato e reso trasparente dall’assenza di qualsiasi tipo di asimmetria informativa, attraverso l’istituto del fallimento, gli “imbroglioni” (banche d’affari ed agenzie di rating e tutti gli speculatori finanziari) sarebbero separati dal “capitale residuo” (pari al valore monetario di tutto ciò che resta dopo la liquidazione fallimentare) perché esso, nell’interesse di tutti, possa passare di mano e possa essere gestito da operatori “onesti” ed efficienti.
Ma all’interno di mercati non ben regolati e resi opachi da asimmetrie informative, diventa facile, come è accaduto nel caso della crisi del mercato immobiliare degli USA, il consolidamento della presenza di operatori “imbroglioni”, i cui comportamenti valgono a separare i mezzi monetari dagli “ingenui”, resi tali però col raggiro e la disonestà. Sino a che tutte le cause del cattivo funzionamento dei mercati non sarà rimosso, le crisi delle borse valori, che, com’è noto, costituiscono i mercati monetari di medio-lungo periodo, anziché contribuire a rendere intelligibili gli esiti dei comportamenti degli operatori, serviranno solo a diffondere ulteriormente le condizioni perché le crisi si susseguano sempre più frequentemente in forme sempre più gravi e sempre più dannose per i presunti investitori “ingenui”. A più di un anno dallo scoppio dello scandalo dei mutui immobiliari americani, la crisi da esso indotta si è diffusa a livello mondiale in modo non uniforme tra tutti i sistemi sociali integrati nell’economia mondiale, con esiti che si prevede saranno catastrofici per quelli più poveri. Questo problema generali sarà oggetto di riflessione di un prossimo intervento.

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