Gianfranco Sabattini
Robert Skidelsky, economista e grande biografo di John Maynard Keynes, ed il figlio Edward, filosofo, hanno dato alle stampe il libro “Quanto è abbastanza”, il cui contenuto è molto attuale, dato che si inserisce provocatoriamente nel dibattito sui problemi posti dall’”ideologia” della crescita continua e illimitata. Il libro, per ammissione degli stessi autori, è “un’argomentazione contro l’insaziabilità, quella disposizione psicologica che ci impedisce… di dire <<adesso basta>>”. Esso si rivolge alle aree ricche, perché dotate di tanta ricchezza accumulata da permettersi di garantire a tutti la libertà dal bisogno, per vivere una “vita buona”; ma si rivolge anche alle aree povere, sebbene per esse il problema della vita buona appartenga al futuro. Dappertutto, tuttavia, il problema è visibile ed è espresso dalle profonde differenze sperequative esistenti tra pochi ricchi e i molti poveri, o indigenti.
Per gli autori, l’”insaziabilità” è radicata nella natura umana, ma è stata impressa nei prevalenti comportamenti umani dal “mostro” del capitalismo, che l’ha trasformata nel fondamento psicologico della società moderna. Il libro, quindi, è un appello a mettere il “mostro in catene”, per rendere possibile la realizzazione di una vita buona per tutti; ma è anche il suggerimento dei possibili cambiamenti istituzionali e politici che si renderanno necessari. Esso, infine, non riguarda questioni di giustizia sociale, ma solo le componenti delle vita buona; nella narrazione degli autori, le questioni relative all’equa distribuzione del prodotto sociale assumono importanza solo nel contesto dei requisiti della vita buona.
Gli Skidelsky si allineano alle critiche che Serge Latouche va formulando da tempo contro l’”ossessione” delle crescita continua ed illimitata del prodotto interno lordo; tuttavia, a differenza di Latouche, essi non si dichiarano contrari alla crescita economica in quanto tale, ma considerano “ragionevole interrogarsi”, non sul suo scopo, ma sul suo oggetto, ovvero su che cosa debba crescere, individuandolo principalmente nel tempo libero e nel rispetto dell’ambiente, entrambi esclusi dal PIL. Sino a che punto l’aumento del prodotto interno possa concorrere a rendere possibile la vita buona rimane una “questione controversa”; in ogni caso, le condizioni materiali per realizzarla nelle aree ricche del mondo esistono di già, ma il cieco ed irrazionale inseguimento della crescita continua ed illimitata la escludono dagli obiettivi dell’”agenda politica” dei sistemi sociali capitalistici.
Al contrario, l’obiettivo della politica dovrebbe essere quello di garantire in prospettiva, sul piano istituzionale ed economico, un’organizzazione del sistema sociale che collochi alla portata di tutti le cose buone della vita, individuate dagli autori in sette beni: la salute, la sicurezza, il rispetto, la personalità, l’armonia con la natura, l’amicizia e il tempo libero. Si tratterebbe, a loro parere, di un “paniere” di beni, tutti fondamentali, nel senso che appartengono alla vita buona in quanto tale; ma anche tutti finali, nel senso che sono buoni in sé e non come mezzo per ottenere qualche altro bene; inoltre, tutti sui generis, nel senso che non fanno parte di nessun altro bene, nonché tutti indispensabili, nel senso che chiunque non ne disponga versa nella condizione di chi abbia subito una qualche perdita o un qualche danno. Una società che li garantisca porta tutti i suoi componenti a vivere una vita buona. Tuttavia, il termine “realizzazione” è, per gli autori, un termine vago, in quanto non consente di stabilire quanto di ogni bene fondamentale si deve disporre per poter ambire alla vita buona; le possibili risposte all’indeterminatezza possono essere giustificate sulla base di “una buona dose di legittima varietà”, senza che l’imprecisione debba essere considerata un “difetto in una ricerca vaga per sua natura”.
Secondo gli autori, la politica finalizzata alla realizzazione delle precondizioni per la disponibilità generalizzata dei beni fondamentali dovrebbe, in particolare, essere fondata sull’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza, accompagnata da una diminuzione della “spinta a consumare” per ridurre la “spinta a lavorare”; tutto ciò, al fine di dilatare al massimo possibile il tempo libero. Le precondizioni dovranno potersi realizzare escludendo ogni forma di coercizione; un simile orientamento dell’attività politica appare però d’impossibile attuazione senza “l’autorità e l’ispirazione che solo la religione può offrire”.
A dire il vero, la prospettiva indicata per realizzare la vita buona non sembra molto diversa da quella di Latouche, nel senso che, anche quella degli Skidelsky risulta essere molto indeterminata e affidata a speranze fideistiche. Per essere condiviso, un progetto sociale non solo deve essere univocamente determinato riguardo a tutti i suoi presupposti ed a tutti i suoi effetti, ma deve anche essere fondato su regole certe, perché la realtà sociale si costruisce attraverso la certezza delle regole e non attraverso la speranza negli esiti di una qualche norma o sistema di norme di natura sacrale.
Perciò, per quanto provocatorio, il volume degli Skidelsky è tutt’al più un contributo all’approfondimento dei problemi connessi con gli esiti della crescita continua ed illimitata; ma nulla aggiunge rispetto al risultato cui è pervenuto Herman Daly, che propone di rimediare ai “guasti” sociali ed economici della crescita senza limiti con l’istituzionalizzazione del modello organizzativo del sistema sociale fondato su un sistema economico in stato stazionario. Il modello di Daly sussume in sé tutte le precondizioni indicate dagli Skidelsky; la prospettiva della sostenibilità forte sulla quale il modello di Daly è fondato, infatti, è quella che più coerentemente corrisponde al funzionamento di un’economia orientata allo sviluppo qualitativo: cioè all’aumento del livello di benessere pro-capite, fuori dalla logica della crescita distruttiva, propria della società capitalistica moderna.
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