Antonello Mattone
Dal Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)
ELEONORA d’Arborea. - Nacque probabilmente in Catalogna intorno al 1340 da Mariano de Bas-Serra e da Timbora de Rocaberti.
Suoi fratelli furono Ugone, nato nel 1337, Beatrice ed un’altra femmina, di cui non conosciamo il nome, morta in tenerissima età intorno al 1346.
Fin dai suoi primi anni E. visse ad Oristano dove la famiglia si era trasferita.
Agli inizi del 1347 il giudice Pietro III morì improvvisamente senza lasciare discendenti diretti. La Corona de Logu del Giudicato (cioè l’assemblea che manifestava la volontà dei personaggi più eminenti del Rennu, i prelati, i funzionari, i maiorales delle città e dei villaggi) elesse giudice il padre di E., che era fratello dello scomparso. Mariano, quarto di questo nome nella serie dei giudici arborensi, resse le sorti d’Arborea dal 1347 al 1376.
Non sappiamo nulla dell’infanzia e della prima giovinezza di E., né tanto meno della sua educazione e delle sue esperienze alla corte giudicale di Oristano quando, tra la fine del quinto e l’inizio del sesto decennio del secolo la politica estera arborense abbandonò la subalterna alleanza con i sovrani di Barcellona, tipica dei tempi di Pietro III, radicalizzandosi su posizioni decisamente antiaragonesi (logica conseguenza, lo scoppio della guerra nel 1353). In un guiatge (salvacondotto) concesso il 20dic. 1354 dal sovrano a Timbora e ai suoi tre figli per recarsi a Barcellona (il viaggio poi non ebbe luogo) troviamo un cenno indiretto alla giovane “principessa”. La prima menzione di E. in un documento ufficiale risale tuttavia al 2giugno 1355, in una lettera inviata da Pietro IV d’Aragona al proprio camerario Lope de Gurrea, nella quale si ipotizzava l’invio come ostaggio in Catalogna del primogenito di Mariano, Ugone, o in alternativa quello delle due figlie, E. e Beatrice, affinché nella corte di Barcellona potessero prendere marito. Questo progetto venne però accantonato.
E. sposò, non prima dell’autunno del 1376, il quarantenne Brancaleone Doria. Questo matrimonio si inseriva in un piano ambizioso: gettare le basi di un’alleanza stabile tra i giudici d’Arborea ed i Doria, famiglia da sempre su posizioni antiaragonesi, che controllava vasti territori della Sardegna nordoccidentale. I termini del matrimonio (e l’intesa politica tra i Doria e i Bas-Serra) furono però definiti da Ugone III, dopo la morte del padre. Dopo le nozze, E. andò ad abitare col marito nella rocca di Castelgenovese, l’attuale Castelsardo: lì nacquero i figli Federico, nel 1377, e Mariano, forse nel 1379. Da Castelgenovese E. seguì comunque le vicende politiche oristanesi: nell’agosto del 1381 - quando si profilava il pericolo della morte del fratello, il giudice Ugone III, colpito da una grave malattia - E. inviò due lettere al re e alla regina d’Aragona in cui chiedeva l’appoggio dei sovrani a sostegno dei diritti di successione del figlio Federico contro le pretese avanzate dal visconte di Narbona, vedovo di sua sorella Beatrice, morta nel 1377.
Nel 1382 E. decise di lasciare la Sardegna e di trasferirsi a Genova. Il 21 giugno, tramite una procura conferita a Brancaleone, chiese al doge Nicolò Guarco l’esenzione dal pagamento delle tasse per almeno cinque anni se avesse deciso di andare a vivere con la famiglia nella città ligure. Il privilegio venne accordato dal Consiglio degli anziani della Repubblica di S. Giorgio, giacché “domina Ellionor” avrebbe recato lustro e prestigio alla città. Il 20 agosto Nicolò Guarco nominò suoi procuratori Giovanni di Montegranaro, dottore in legge, e Iacopo Doria per ottenere un prestito di 4.000 fiorini d’oro da E. e definire con lei i termini delle future nozze tra i rispettivi figli minorenni Bianchina e Federico.
Non sono del tutto chiari i motivi che avrebbero spinto E. e Nicolò Guarco a porre le basi di questa intesa matrimoniale. Per parte sua E., legandosi ad una famiglia dogale in ascesa, voleva probabilmente rinsaldare i rapporti di alleanza che univano i Bas-Serra alla Repubblica di S. Giorgio. Genova infatti, nonostante la pace stipulata con Pietro IV nel 1378, aveva tutto l’interesse ad incrementare e a sostenere di nascosto la resistenza antiaragonese dei giudici di Oristano. Non a caso il 6 genn. 1383 il doge Nicolò Guarco ed il Consiglio degli anziani dovranno discolparsi dalle accuse di aver rifornito il giudice di Arborea di armi e vettovaglie.
Così nell’autunno del 1382 E. si trasferì a Genova, una città scossa dalla crisi provocata dalla guerra con Venezia e travagliata da gravi problemi sociali. A Genova tuttavia E. rimase pochi mesi. Alla vigilia di Pasqua del 1383 (il 3 o il 6, ma certo nella prima decade di marzo), infatti, il giudice Ugone III, che aveva impresso un duro, militaresco andamento alla sua politica interna, provocando malumori e tensioni politiche e sociali, venne assassinato in Oristano. E., come venne a conoscenza del fatto, decise senza indugio di rientrare in patria per far valere i diritti di successione del proprio primogenito. In quei giorni Brancaleone Doria si trovava certamente già a Barcellona per affari. Rientrata in Sardegna, E. nell’aprile-maggio, percorrendo a cavallo con i suoi fedeli i territori giudicali, stroncò con estrema e insospettata energia ogni forma di ribellione.
A Barcellona Brancaleone tesseva un’abile trama diplomatica presso la corte aragonese per conquistarsi la fiducia di Pietro IV. Presentatosi alle Cortes convocate a Monzón, lasciò intravedere la possibilità di ricondurre la Sardegna all’obbedienza ed “in bon statu et pacifica tranquillitate”. Il re lo accolse con benevolenza, e lo creò, il 24 giugno, conte di Monteleone e barone di Marmilla, estrapolando questa incontrada dai possessi giudicali.
Il 17 giugno, da Oristano, E. indirizzò al re Pietro IV una lettera nella quale comunicava di aver sottomesso tutti i territori arborensi, ad eccezione di Sassari, grazie al “subsidio bonorum Sardorum meorum et cum bona voluntate totius populi Sardici” (Casula, Carte … Giovanni I, p. 37). I congiurati, affermava, intendevano chiedere aiuto a Genova e miravano ad instaurare un regime comunale. La giudicessa concludeva la lettera avanzando proposte di pace e pregando il sovrano di voler concedere un salvacondotto ai quattro ambasciatori arborensi che ella avrebbe inviato a Barcellona per avviare al più presto trattative di pace. In un’altra lettera, sempre del 17 giugno, E. rinnovò le profferte di pace pregando la regina d’Aragona di intercedere presso il consorte “pro me, ac pro bono statu huius insulae” (Codex…, ed. Tola, I, n. 146, p. 815).
Pietro IV rispose l’11 luglio: rivolgendosi ad E. in qualità di contessa di Monteleone (nelle lettere E. si era invece firmata “Elionora Iudicissa Arboreae”), prendeva atto del suo operato e della riconquista dei territori giudicali purché quest’ultima fosse stata fatta in nome della Corona aragonese; si dichiarava inoltre disposto a concedere il salvacondotto ai quattro plenipotenziari anche se lo riteneva superfluo poiché i sudditi regi non avevano bisogno di credenziali per recarsi a corte. Non sappiamo se poi i quattro ambasciatori si siano recati a Barcellona; è probabile comunque che si sia arrivati alla definizione di una base di accordo: quella “concordia” o “convinença” cui si fa riferimento nei capitoli del 1386.
Nella lettera del 17 giugno E. affermava di aver imposto i propri diritti di successione al trono giudicale come unica figlia superstite di Mariano IV. Aveva inoltre fatto eleggere giudice, dall’assemblea della Corona de Logu, il proprio primogenito Federico e ne aveva assunto la tutela in qualità di giudicessa reggente. Il ricorso all’antica prassi elettiva anziche all’infeudazione regia non poteva certo piacere alla Corona che l’aveva condannata trent’anni prima. Ancora più lesivo dell’autorità del sovrano aragonese doveva apparire il fatto che i “sindici” dei villaggi dei territori regi annessi al Giudicato avessero prestato giuramento nelle mani di Eleonora.
La giudicessa e il re parlavano lingue diverse e si rifacevano a differenti tradizioni istituzionali. Si riproponeva in realtà ancora una volta il problema irrisolto dell’ambiguo rapporto giuridico tra il Giudicato d’Arborea e la Corona d’Aragona. La Cancelleria reale cercava di inserire questo rapporto all’interno di un vincolo vassallatico, richiamando le clausole della concessione feudale dell’infante Alfonso al giudice Ugone II del 1323; i giudici di Oristano restavano invece fedeli alla loro antica autonomia di origine altomedievale e all’esercizio di una piena sovranità all’interno dei propri territori.
Durante l’estate gli eventi precipitarono: E. riaprì infatti le ostilità contro gli Aragonesi. Il 4 settembre il governatore di Cagliari, Giovanni de Montbui ne informò Pietro IV, togliendo al sovrano le ultime speranze circa la possibilità che la giudicessa assumesse un atteggiamento conciliante e mettendolo in guardia contro le vere intenzioni di Eleonora. Sulla decisione di E. deve aver probabilmente influito la pressione dei maggiorenti locali per la ripresa di una politica antiaragonese che - al di là della “parentesi” del governo tirannico di Ugone - era almeno dai tempi di Mariano IV profondamente condivisa dalla popolazione arborense sia per la difesa delle “libertà” interne, sia per la stessa espansione territoriale del Giudicato. La scelta di proseguire la guerra maturò proprio nel momento in cui Brancaleone si trovava a Barcellona nella duplice veste di suddito fedele del re d’Aragona e di marito della giudicessa ribelle d’Arborea. A Pietro IV certo non facevano difetto la scaltrezza e il cinismo: Brancaleone venne arrestato e sotto buona scorta, ai primi del 1384, fu tradotto in Sardegna. L’obiettivo del sovrano era quello di utilizzare il prigioniero come strumento di pressione nei confronti di E. per giungere rapidamente ad un trattato di pace favorevole all’Aragona e per farsi consegnare come ostaggio, in cambio della libertà del marito, il piccolo giudice Federico.
E. non si perse d’animo: respinse la proposta e confermò la sua politica di guerra, sebbene all’interno del Giudicato stessero emergendo nuove tensioni. Ad Oristano doveva permanere un’atmosfera ancora carica di ostilità se E. aveva deciso di tenere sotto attenta sorveglianza nel castello di Bosa il piccolo giudice Federico, forse allo scopo di proteggerlo da oscure trame. All’inizio della primavera del 1386 venne scoperta una cospirazione ordita dal maior camerae Francesco Squinto il quale mirava ad impadronirsi del Giudicato, a consolidare i legami con Genova e a proseguire la guerra contro i Catalani a dispetto di ogni tentativo di pace. Come risulta da una lettera indirizzata il 5 aprile di quell’anno dal plenipotenziario regio Gilberto da Campllonch al proprio sovrano, E. fece arrestare lo Squinto e la sua consorteria. Durante l’arresto, avvenuto dinanzi al palazzo giudicale, si verificò un tumulto popolare: al grido di “Viva donna Eleonora, messer Branca e suo figlio e muoia chi vuole la guerra” la folla assalì e saccheggiò le case dei familiari del maggiordomo traditore.
La congiura dello Squinto, se rivela che nell’Arborea continuavano a persistere, seppur sopite, radicali alternative alla gestione del potere giudicale, presenta molti punti oscuri che l’esiguità delle fonti non ci consente di chiarire. Fu la conseguenza di uno scontro di fazione nella corte giudicale o fu una semplice montatura politica a danno di un oppositore per allentare la tensione popolare e favorire una onorevole pace dato che la necessità di condurre a termine le trattative per porre fine a una guerra trentennale doveva essere allora un’esigenza ormai largamente avvertita?.
I colloqui di pace tra il Giudicato e la Corona vennero aperti nella primavera del 1385 con l’arrivo in Sardegna del plenipotenziario regio Gilberto de Campllonch. Nell’Arborea si delinearono due tendenze opposte: un partito della pace, che si riconosceva in E. e nella sua volontà negoziale e nella difesa dei confini del Giudicato e delle antiche forme di governo; un partito delle libertà comunali, teso a sovvertire le istituzioni tradizionali e a collegarsi direttamente con la Repubblica di Genova. La prima fase delle trattative - che durarono tra alti e bassi per ben tre anni - fu caratterizzata da una certa intransigenza arborense, dovuta forse ai diversi orientamenti della oligarchia oristanese. Tale intransigenza venne alla fine piegata dagli Aragonesi, i quali nella seconda fase dei negoziati utilizzarono spregiudicatamente, come mezzo di pressione sulla controparte, anche le condizioni di vita cui sottoponevano Brancaleone Doria, il prezioso ostaggio caduto in loro potere.
Così, dopo le laboriose trattative condotte dal governatore generale Pérez de Arenós e dal maior camerae arborense Tommaso de Serra, dal vicecancelliere Comita Panza, dal cittadino sassarese Antonio Caso, per conto di E., la pace venne firmata a Cagliari il 24 genn. 1388. L’anno prima era morto il figlio di E., il giudice Federico, e gli era successo il fratello Mariano, di nove anni, mentre E. aveva conservato la reggenza.
Il trattato era già stato pregiudizialmente approvato, secondo gli ordinamenti pubblici giudicali, dai sindaci, “actores et procuratores” delle città, delle curatorie e delle incontrade, “congregati” ad Oristano, nel refettorio della chiesa di S. Francesco, nell’assemblea della Corona de Logu, cioè l’istituzione abilitata a discutere e a ratificare i capitoli di pace. Ad esso sono infatti allegate le ratifiche dei rappresentanti delle città e dei villaggi, sia giudicali, sia quelli dei territori incorporati, alle condizioni fissate, e l’elenco degli abitanti che riuniti in assemblea avevano dato al loro sindaco e procuratore la potestà di sottoscrivere l’atto. Il trattato, che costituisce perciò una fonte davvero unica per la conoscenza dell’onomastica (circa 3.500 nomi e cognomi) e della toponomastica (circa 300 toponimi) della Sardegna medievale, venne firmato dal re Giovanni I d’Aragona l’8 aprile di quello stesso anno nel monastero di Valldonzella, presso Barcellona.
Raggiunta la pace, si trattava di dare attuazione concreta ai capitolati pattuiti e di procedere alla liberazione di Brancaleone. Vennero dunque aperti nuovi negoziati tra il governatore generale e i rappresentanti della giudicessa, Miale Darcha, Comita Panza, l’oristanese Torbino Marinella, Antonio Caso. Il 1°genn. 1390 venne raggiunto l’accordo per la liberazione di Brancaleone Doria, che poté lasciare il castello di Cagliari qualche giorno dopo.
Mentre ci sono pervenute numerose fonti sulle relazioni tra l’Arborea ed il Regno di Aragona, ora conservate in gran parte nell’Archivo de la Corona de Aragón di Barcellona, ci sono rimasti pochissimi documenti sulla politica attuata da E. dal 1383 al 1390 in campo economico, sociale ed istituzionale nei territori giudicali ed in quelli annessi (uno di essi, datato 1º maggio 1385, riguarda la delimitazione dei confini del territorio del villaggio di Santu Lussurgiu). Questa lacuna impedisce di fatto un’ampia e articolata valutazione storica del ruolo della giudicessa, la cui figura resta per molti aspetti ancora emblernatica. Tuttavia, possiamo affermare che E. dovette avere una forte personalità giacché, pur non destinata a diventare “judicissa”, seppe restaurare energicamente il potere giudicale e riuscì ad imporre le prerogative della propria casata.
Senza cadere nell’acritica sopravvalutazione della mitica “eroina del popolo sardo”, così cara alla tradizione romantica, ci pare che vi siano almeno quattro aspetti degni d’attenzione nell’azione di E.: nella prassi e negli orientamenti di governo la giudicessa si riallacciò direttamente all’esperienza del padre Mariano IV, abbandonando definitivamente la politica autoritaria del fratello Ugone III (determinante in questa svolta fu il ruolo assolto dai funzionari della Cancelleria arborense, dagli ecclesiastici, dai dignitari della corte di Oristano, che offrirono all’inesperta E. un supporto tecnico e di conoscenze per l’esercizio concreto del potere); la difesa della sovranità e dei confini territoriali del Giudicato, evidente sia nella presa del potere del 1383, sia nelle lunghe trattative di pace del 1386-88; il consenso che la sua politica riuscì a riscuotere tra i maggiorenti delle città e dei villaggi giudicali e di quelli dei territori annessi; e, infine, l’opera di riordino e di sistemazione definitiva degli ordinamenti e degli istituti giuridici locali (già in gran parte raccolti da Mariano IV), sfociata nella promulgazione della Carta de Logu d’Arborea.
Tra il 1385 ed il 1391 - a causa del silenzio delle fonti note non conosciamo la data esatta dell’avvenimento - E. promulgò la Carta de Logu d’Arborea, lo statuto che raccoglie gli usi giuridici locali. Il documento non ci è pervenuto in originale: ne conosciamo il testo solo attraverso due redazioni relativamente tarde, che differiscono su taluni punti in modo sostanziale, fornite, l’una, da un manoscritto cartaceo quattrocentesco ora conservato presso la Biblioteca universitaria di Cagliari, e, l’altra, da un incunabolo privo di frontespizio e di colophon ma attribuibile alla fine del sec. XV.
Con la locuzione Carta de Logu si intende la “tipica forma che assunse la manifestazione del potere legislativo dei giudici sardi” (A. Era, Lezioni…, p. 313). La voce carta èsinonimo di statuto; la voce logu indica l’intero territorio giudicale o una porzione di esso.
Nel proemio alla Cartade logu de Arborea E. fissa i due principi fondamentali che hanno ispirato la promulgazione della legge territoriale del Giudicato: l’”acreximentu dessas provincias et regnos et terras” dipendono e derivano dal diritto (”sa rexonj”) e dalla giustizia; attraverso le buone norme (”per issu bonus capidulus”) si può limitare la superbia dei rei e degli uomini malvagi affinché i buoni, i puri, i deboli possano vivere “in seguridadi per paura dessas penas”. Desiderando “qui sos fedeles et subditus nostros dessu regnu nostru de Arborea” siano disciplinati da norme e ordinamenti in virtù dei quali possano vivere in “pacificu et tranquillu et bonu istadu”: emaniamo - afferma E. - le norme e i capitoli (”fachimus sas ordinaciones et cabidulos”) che si devono rispettare ed osservare come legge “per ciaschaduno dessu iuyghadu nostru de Arboree predictu in iudiciu et extra”.
Nel proemio E. ricorda inoltre “sa Carta de Logu” che era stata emanata con “grande sinnu et provedimentu” dal giudice Mariano IV “padri nostru” e che non era stata corretta né emendata per sedici anni. Il nucleo fondamentale dell’opera di E. si manifesta infatti soprattutto nella revisione e nell’aggiornamento di testi normativi vigenti, seppur superati e invecchiati. La Carta de Logu di Arborea si presenta come il risultato della collazione e della fusione di almeno tre diversi testi: la Carta de Logu di Mariano, emanata fra gli anni 1367 e 1376 (o intorno al 1374 come suggerisce il Cortese), che l’Era, in uno studio del 1959 intitolato appunto Le “Carte de Logu”, colloca tra il capitolo 1 ed il capitolo 129 della Carta emanata da E.; il Codice rurale dello stesso Mariano (capitoli 133-159) emanato forse dopo il 1347, non compreso nel manoscritto quattrocentesco, ma inserito nel testo dato dall’incunabolo della fine del XV secolo; le aggiunte e le revisioni di E. riscontrabili nei capitoli 128-132 e 160-198. Tuttavia, poiché la Carta de Logu di Mariano non ci è pervenuta, è impossibile stabilire con esattezza quanto E. abbia riprodotto della legislazione paterna e quanto abbia invece innovato.
Si è discusso a lungo sull’identità del probabile compilatore della Carta de Logu. Èstata avanzata l’ipotesi (D. Scano, A. Marongiu) che potesse trattarsi del “dotore de decretu et de lege et canonicu” Filippo Mameli, morto ad Oristano l’8 maggio 1349, dato che il testo rivela nel proemio e nei capitoli 3, 21, 51, 57 l’impronta di un esperto conoscitore del diritto canonico e in particolare delle Decretali di Gregorio IX. Tuttavia la supposizione di un ruolo decisivo del Mameli non è avvalorata da alcuna concreta prova documentaria. Ad ogni modo, proprio all’interno della tradizione di studi canonistici che caratterizzò in quel periodo la Chiesa arborense, gli storici hanno continuato a cercare il probabile redattore o comunque chi avesse dato forma giuridica ai capitoli della Carta de Logu. Di recente è stata, pur con cautela, prospettata la possibilità (F. Artizzu, O. Schena) che un ruolo decisivo nella redazione del testo della Carta di Mariano IV sia stato svolto dal francescano Guido Cattaneo, succeduto ad Oddone della Sala nel governo dell’arcidiocesi arborense.
Nel codice arborense, accanto agli influssi canonistici, si può cogliere anche una forte influenza romanistica: in diversi casi, infatti, quando esso si richiama alle leges o alla rexione, l’accenno è all’autorità generale del diritto romano.
Nel proemio, oltre al peso della tradizione romano-canonica, si possono cogliere sia l’ispirazione della scienza bolognese e del pensiero dei glossatori, sia l’influenza della stessa cultura curiale catalana. Il compilatore od i compilatori del codice emanato da E. dimostrano dunque una buona conoscenza non soltanto degli usi e delle consuetudini locali o del diritto sardo di tipo municipale - come gli statuti sassaresi -, o di emanazione signorile - come gli statuti di Castelgenovese -, ma anche del diritto catalano-aragonese - come gli Usatici barcellonesi e le Constitucions di Catalogna.
Controversa la datazione della Carta de Logu. Nel 1805 il Mameli de’ Mannelli sostenne che E. l’aveva emanata l’11 aprile (giorno di Pasqua) del 1395, basandosi su una erronea lezione fornita dalle edizioni a stampa. Venne seguito da tutta la storiografia ottocentesca. Nel 1905 il Besta, correggendo l’errore del Mameli, propose come data il 1392, anche se affermò che “forse è anteriore”. L’Era nel 1939 avanzò l’ipotesi del 1386, per poi ripiegare, nel 1960, su un periodo di tempo compreso tra il 1383 ed il 1391. Infine, il Cortese ha di recente fissato come periodo dell’intervento normativo arborense i mesi che vanno dalla primavera alla fine del 1390 o all’inizio del 1391.
La Carta de Logu è composta da 198 capitoli nella redazione dell’incunabolo della fine del sec. XV e da 163 in quella del manoscritto quattrocentesco edito nel 1903 dal Besta e dal Guarnerio. La suddivisione delle materie non corrisponde ad un criterio di logica distribuzione. Il diritto e la procedura penali sono, ad esempio, distribuiti nelle varie sezioni del codice. Lo stesso avviene per il diritto civile, in particolare per i contratti, le successioni e il diritto di famiglia. Questo aspetto ha fatto supporre che la Carta de Logu, rimaneggiata più volte, non abbia mai avuto una sistemazione definitiva. Tale ipotesi è suffragata anche dall’inserimento, nella redazione data dall’incunabolo, delle norme del “codice rurale” di Mariano IV che ripetono spesso norme presenti nelle altre sezioni.
La Carta de Logu si apre con un proemio (”A laude de Jesu Christu salvadori nostru, et exaltamentu dessa justicia”), che illustra sobriamente le ragioni della sua promulgazione. Nell’incunabolo quattrocentesco è suddivisa in dieci parti o sezioni (ordinamentos in sardo).
La prima sezione, senza titolo, comprende i capitoli 1-16 e contiene disposizioni per i reati di lesa maestà, omicidio, veneficio, suicidio, aggressione, ferimento, percosse, grassazione. L’omicidio è punito col taglio della testa, è vietata ogni forma di composizione pecuniaria ed è prevista la legittima difesa. Si attribuisce inoltre importanza al fattore soggettivo del reato, distinguendo tra l’omicidio commesso “con animu. deliberadu e pensadamenti” e quello preterintenzionale. Viene anche definito l’istituto dell’incarica, cioè la responsabilità collettiva del villaggio nei confronti dei reati commessi nel suo territorio: esso comportava un’ammenda a carico degli abitanti nel caso in cui non fossero stati scoperti i colpevoli.
La seconda sezione, che ha per titolo “Ordinamentos de fura et maleficios”, comprende i capitoli 17-44 e disciplina il diritto e la procedura penale. Dopo aver trattato degli ordinamenti di polizia - il majore e i jurathos sono obbligati a stimare una volta al mese i danni a cui potevano andare soggetti gli uomini dei villaggi e due volte al mese quelli subiti dai mercanti - vengono contemplati i reati di stupro e di adulterio: la pena per il violentatore è in genere pecuniaria. Assai moderna la norma contenuta nel capitolo 21, per cui, nel caso di violenza carnale nei confronti di una nubile, il matrimonio riparatore è ammesso solo col consenso della donna. Le norme contro i furti, che danno il titolo alla sezione, sono particolarmente severe: in quasi tutti i casi, in particolare in quelli di abigeato, sono tuttavia previste pene pecuniarie, solo in via sussidiaria il taglione e, in caso di recidiva, la forca.
La terza sezione, intitolata “Ordinamentos de fogu”, comprende i capitoli 45-49, ed è forse la più omogenea perché tratta del debbio, cioè della pratica di bruciare le stoppie per concimare la terra, e degli incendi dolosi.
La quarta sezione, intitolata “Ordinamentos de chertos e de munza”, comprende i capitoli 50-80, che trattano del procedimento giudiziario, dalla citazione alla sentenza, e delle prestazioni servili. La Carta de Logu distingue tre tipi di corone, le corti che amministravano la giustizia: la corona de logu, presieduta dal giudice o da un suo delegato, formata dai maggiorenti delle curatorie e dei villaggi, oltre le ampie attribuzioni politiche, avocava a sé le cause più importanti; la corona de chida de berruda, presieduta dal curatore che reggeva amministrativamente le curatorie o le incontradas del Giudicato col consizu di cinque boni homines giudicanti; infine la corona de podestate, la magistratura civica di Oristano assai simile a quella contemplata negli statuti di Sassari.
La quinta sezione, che è intitolata “Ordinamentos de silvas” e comprende i capitoli 81-105, tratta della caccia e raggruppa anche alcune norme di diritto penale e civile di vario argomento, come il capitolo 99, che definisce il matrimonio “a modu sardiscu” distinto, per natura giuridica, dal matrimonio dotale. La storiografia ha discusso a lungo se il matrimonio “a sa sardisca” fosse caratterizzato dalla comunione dei beni tra coniugi (Besta, Solmi, Roberti) o dalla comunione degli acquisti e dei frutti (Ercole, Marongiu, Cortese).
La sesta sezione, intitolata “Ordinamentos de corgios”, comprende i capitoli 106-111 e costituisce (come le disposizioni sul fuoco) un gruppo omogeneo di norme tese a regolare il commercio dei cuoi e ad evitare i furti.
La settima sezione, che ha per titolo “Ordinamentos de sa guardia de laores” e comprende i capitoli 112-122, regola le chiusure dei coltivi per proteggerli dalle invasioni distruttive delle greggi e include anche norme sull’ordinamento giudiziario, sul processo, sul notariato.
L’ottava sezione, intitolata “Ordinamentos de salarios”, che comprende i capitoli 124-132, fissa l’importo dei salari dei magistrati, dei notai e degli scrivani dei tribunali giudicali.
La nona sezione, dal titolo “Ordinamentos de vignas, de laores e de ortos”, comprende nei capitoli 133-159 il “codice rurale” di Mariano IV. Questi capitoli non sono compresi nella redazione della Carta fornita dal manoscritto cagliaritano: furono perciò probabilmente inseriti nel sec. XV, sicuramente dopo il Parlamento del 1421, come sembra doversi dedurre dal fatto che essi compaiono solo nella prima edizione a stampa, quella rappresentata appunto dal citato incunabolo. Si può quindi concludere che E., avendo già rifuso nel suo codice le disposizioni della Carta de Logu emanata dal padre, non avesse voluto inserirvi di peso e integralmente anche le norme del “codice rurale”. In caso contrario E. avrebbe anche coordinato queste norme con i capitoli dettati per l’agricoltura nella settima sezione della Carta de Logu “Ordinamentos de sa guardia de laores”, evitando ripetizioni ed omettendo il capitolo 112 sulla chiusura delle vigne e degli orti. Tuttavia, a partire dalla prima edizione a stampa le une e le altre norme rimasero in vigore senza interferire, salvo poche inevitabili antinomie facilmente superate dall’ermeneutica giuridica. Il commento dell’Olives le considerò come un sistema organico e le accompagnò sin dal sec. XVI nell’applicazione pratica.
Il “codice rurale” di Mariano traccia un quadro della vita rustica nella Sardegna medievale e dell’eterno conflitto tra il mondo agricolo e quello pastorale. Nel capitolo 133, che costituisce una sorta di proemio, il giudice afferma di aver emanato il codice a causa delle continue lagnanze che gli pervenivano dalle terre d’Arborea e di Logudoro sul cattivo stato delle campagne per la scarsa custodia del bestiame. Istituisce perciò un corpo di jurados de padru o padrargios per la sorveglianza delle vigne, degli orti, dei seminati (lauores), con l’incarico di verificare che i terreni siano ben chiusi; di uccidere o “tenturare” il bestiame che danneggiasse le proprietà; di accusare i ladri campestri e di stimare i danni. In questa sezione, come nei capitoli sulla pastorizia e sull’agricoltura disseminati nell’intero codice arborense, si può forse cogliere meglio l’impronta della tradizione consuetudinaria locale.
La decima ed ultima sezione, intitolata Ordinamentos de cumones de magheddos, termenes e iniurias, comprende i capitoli 160-198 e raccoglie disposizioni su diversi argomenti. Le prime regolano il cosiddetto cumone o contratto di soccida, che consiste nella società tra il proprietario e il conduttore del gregge. Gli altri capitoli contemplano relazioni rurali e pastorali, furti e danni, ingiurie ed oltraggi.
Il testo originale della Carta de Logu non ci è pervenuto. Il codice pergamenaceo promulgato da E. andò forse distrutto nel 1478 durante il saccheggio dell’ex palazzo giudicale di Oristano. Ci è invece pervenuto un manoscritto cartaceo quattrocentesco compilato da mani diverse e in differenti momenti, “molto diseguale e incoerente”, dalla “scrittura capricciosa e sconclusionata”, come afferma il Guarnerio: insomma una brutta copia dell’originale, redatta da uno scrivano, un notaio o da due religiosi per uso comune. Si spiega quindi perché l’incunabolo della Carta de Logu abbia assunto il ruolo autorevole di editio princeps col valore quasi di un manoscritto. Purtroppo l’incunabolo (di cui ci sono pervenute due copie, una conservata presso la Biblioteca universitaria di Cagliari, l’altra presso la Biblioteca reale di Torino), stampato in caratteri gotici su una colonna con capilettera miniati in rosso, e privo del frontespizio e del colophon: non sappiamo quindi dove, quando e da chi venne edito.
Da questo incunabolo - che è comunque attribuibile alla fine del XV secolo e che si basa su un archetipo che definiremo “A”, abbastanza completo, ma talvolta poco preciso - derivano alcune successive edizioni a stampa: 1) quella pubblicata a Cagliari nel 1560 da Stefano Moretto (ma in realtà stampata forse a Salamanca o a Lione per conto del Moretto libraio-imprenditore, con il falso topico di Cagliari); 2) quella pubblicata a Napoli nel 1607, “novamente revista et corretta de multos errores”, da Tarquinio Longo, “ad istancia” dello stampatore cagliaritano Martin Saba; 3) quella stampata, a Cagliari nel 1628, modellata su quest’ultima edizione, dal tipografo Bartolomeo Gobetti nella stamperia del dottor Antonio Galcerin.
Diversa è invece l’edizione stampata a Madrid nel 1567, nella tipografia di Alonso Gomez e Pietro Cosin, con i commenti del giurista sardo Girolamo Olives, avvocato fiscale nel Consiglio d’Aragona, dal titolo Commentaria et glosa in Cartam de Logu legum et ordinationum. L’editore si è servito, oltre che dell’editioprinceps a stampa, di un manoscritto ora perduto (che definiremo “B”) “disgraziatamente infetto da una assai mendosa litera e spesso capricciosamente corretto e supplito” (E. Besta). Derivano dalla edizione madrilena del 1567 (e quindi indirettamente dall’archetipo “B”) tutte le successive edizioni con i commenti dell’Olives: 1) l’edizione pubblicata a Sassari nel 1617 da Bartolomeo Gobetti nella tipografia di Antonio Canopoio; 2) quella edita a Cagliari nel 1708 da Giovanni Battista Canavera nella tipografia del convento di S. Domenico; 3) quella stampata, sempre a Cagliari, nel 1725 da Gaspare Nicolò Garimberti nella tipografia di Pietro Borro.
Un discorso a parte merita l’edizione pubblicata con il titolo Costituzioni di E. giudicessa d’Arborea intitolate “Carta de Logu”, “collatraduzione letterale dalla sarda all’italiana favella e con copiose note”, da Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli a Roma nel 1805.
Nel Parlamento del 1421 la “Carta de loch sardesca”, “ab la qual la justicia entre los sarts es administrada”, venne estesa da Alfonso V il Magnanimo a tutti i territori feudali del Regnum Sardiniae, ad eccezione delle città regie (tranne Oristano, che dal 1479 conservò l’uso della Carta de Logu come diritto civile, penale ed agrario). Nel XVI e nel XVII secolo vennero modificati numerosi capitoli.
Nel periodo sabaudo la Carta de Logu, ormai soppiantata dalla legislazione regia e viceregia nel diritto civile, in quello penale e processuale, ebbe il compito di regolare tutti gli aspetti consuetudinari della società agropastorale della Sardegna. Venne abrogata soltanto nel 1827 con la promulgazione delle Leggi civili e criminali pel Regno di Sardegna raccolte e pubblicate per ordine del re Carlo Felice.
Nell’autunno del 1390 iniziò a profilarsi minacciosa una nuova crisi nei rapporti tra E. e la Corona d’Aragona. La primavera di quell’anno si era sostanzialmente trascinata in “bona pau et tranquillitat”, secondo le clausole del trattato del 1388. Ma questo non aveva in realtà eliminato le ragioni profonde dell’antagonismo tra i giudici e gli Aragonesi, sempre le stesse da venti-trenta anni: il conflitto tra le due sovranità; i traumi della conquista straniera; l’orientamento filoarborese dei maggiorenti e degli abitanti delle città e dei villaggi già annessi al Giudicato e tornati sotto il dominio straniero.
La pace del 1388 non aveva eliminato le cause del conflitto. Anzi, le aveva probabilmente aggravate. E. aveva forse accettato l’accordo sfavorevole solo per poter liberare il marito dalla prigionia. I sudditi dei territori incorporati subivano a malincuore il ritorno sotto la sovranità regia. Era dunque inevitabile che dal trattato del 1388 non potesse scaturire una pace duratura ma soltanto una tregua momentanea, tale da consentire ai due contendenti di rafforzare le rispettive posizioni politiche e militari in attesa di sferrare l’attacco decisivo.
In questa fase di preparazione il marito di E. svolse un ruolo da protagonista. Il Doria possedeva non soltanto una tempra di guerriero, ma anche la capacità di cogliere con acume le contraddizioni nelle quali si dibatteva la politica mediterranea catalana ed il fiuto nello scegliere il momento più opportuno per la ripresa delle ostilità. L’”ora di Brancaleone” è stato non a torto definito (B. Anatra) questo momento nel quale il peso dell’energico conte di Monteleone appare determinante rispetto a quello della consorte, sempre più appartata e defilata, di fatto esclusa - sia pure col suo consenso - dai pubblici affari e dal governo del suo paese. Lo stesso Brancaleone afferma nel 1390, all’indomani della sua liberazione, “la jutgessa de axò no ha res a ffer, car despuys yo fuy fora de presò yo son lo tot” (Casula, Carte … Giovanni I, p. 23). La guerra lampo contro gli Aragonesi fu preparata minuziosamente. Si fece soprattutto affidamento sulla connivenza dei ceti dirigenti delle città e dei territori riconsegnati al sovrano di Barcellona.
La campagna militare iniziò il 1°apr. 1391 con il richiamo alle armi di tutti i sardi dai quattordici ai sessant’anni perché si presentassero ai punti di raduno con le armi e viveri per venti giorni. La leva si aggirava sui 10.000 soldati: con queste forze, in pochi mesi Brancaleone riuscì a riconquistare quasi tutti i territori che erano stati annessi al Giudicato prima della pace del 1388.
All’inizio il re di Aragona si era limitato a seguire gli avvenimenti sardi con estrema prudenza. Il 9 apr. 1392 Giovanni I informò il suo governatore in Sardegna di aver incaricato, come procuratore speciale, Alberto Çatrilla di una “missatgeria”: si sarebbe dovuto recare a Cagliari e poi ad Oristano per fare ad E., a Brancaleone Doria e al loro figlio Mariano le rimostranze del re ed ammonirli sulle conseguenze della loro ribellione. L’ambasciata si prefiggeva lo scopo di avere un chiarimento, sia politico sia giuridico, con E. in qualità di giudicessa d’Arborea.
Tuttavia la giudicessa non si lasciò raggiungere dagli inviati del governatore, che si dovettero invece rivolgere al marito. Brancaleone aveva quindi assunto il ruolo di sgradito ed ingombrante interlocutore della Corona, portavoce e rappresentante della casa giudicale, pur non ricoprendo alcuna carica ufficiale nel Giudicato d’Arborea. Montbui era convinto che fosse una “cosa maliciosament cogitada” per tenere la giudicessa fuori dalla ribellione, in una posizione non del tutto compromessa in caso di un nuovo accordo col sovrano. In realtà E. non contava più nulla nella politica del Giudicato. Con ogni probabilità si era fatta volontariamente da parte, delegando ogni decisione al marito.
Il giovane Mariano, che aveva partecipato alle campagne militari del 1391, doveva essere presumibilmente condizionato dalla forte personalità paterna. Non sappiamo nemmeno se l’allontanamento di E. dagli affari di governo abbia coinciso con quello dei funzionari e dei maggiorenti che avevano, negli anni 1383-90, orientato le sue scelte e la sua politica.
La pressione fiscale. fortemente aumentata per sopperire al finanziamento della guerra, finì di necessità con lo squilibrare (se non sgretolare) il sistema di alleanze su cui si era fondata sino al 1390 la politica di Eleonora.
Le notizie su E. si fanno, in questa fase del conflitto, molto frammentarie. Con l’emancipazione di Mariano dalla tutela, E. perdette, anche dal punto di vista formale, ogni attribuzione politica.
Probabilmente nel 1392 Mariano compì i quattordici anni di età necessari per emanciparsi dalla tutela materna (sempre che sia stata rispettata da parte arborense la regola del maggiorascato catalano). Anche se un documento del 20 marzo 1392 definisce il giovane “judex Arboree”, le altre fonti sull’emancipazione di Mariano ci forniscono informazioni nel complesso discordanti: documenti del 1402, del 1404 e del 1406 affermano che Brancaleone esercitava ancora le funzioni di giudice-reggente per il figlio Mariano.
E., ripreso il ruolo oscuro di regina madre, è di fatto ignorata dalla documentazione ufficiale. In una procura del 24 luglio 1399 il re Martino I parla di E. come “moglie” del conte di Monteleone. Non conosciamo nemmeno la data della sua morte.
Il Manno, rifacendosi alla tradizione, fissò, come anno della scomparsa di E., il 1404; lo Scano, il 1403. La proposta più attendibile è quella formulata dal Boscolo (La politica italiana di Martino, 1962), il quale, basandosi sul fatto che in una lettera del sovrano della fine di novembre del 1402, contrariamente all’uso della Cancelleria aragonese non viene menzionata E. ma si fa riferimento solo a Brancaleone e a Mariano, ha ritenuto di poter concludere che nell’autunno del 1402 E. doveva essere già morta forse nel corso dell’epidemia di peste che aveva colpito l’isola.
Fonti e Bibl.: Documenti di grande interesse sono conservati a Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón, Audiencia Real, Fondos Antiguos, s. 2, Procesos contra los Arboreas, voll. IX-X; Ibid., Cancilleria Real, Sardiniae, regg. 1047 s., 1282, 1938-1943, 1968, 2226 s.; Ibid., Papeles para incorporar, caja 25; Arch. di Stato di Cagliari, Museo del Risorgimento, perg. n. 611.
Tra le fonti edite: Memorial del marques de Coscojuela, Madrid 1712, docc. 14, 40, 45, 59; Codex diplomaticus Sardiniae, a cura di P. Tola, I, in Mon. hist. patriae, X, 1, Augustae Taurinorum 1861, docc. 21, 144 s., 146, 150-153; D. Girona Llagostera, Itinerari del rei en Ioan I, in Estudis universitaris catalans, XIII (1928), pp. 93, 134, 338-402; XIV (1929), pp. 332 s.; D. Scano, Codice diplomatico delle relazioni fra la S. Sede e la Sardegna, Cagliari 1940, I, doc. 644; E. Putzulu, “Cartulari de Arborea”. Raccolta di documenti diplomatici inediti sulle relazioni tra il Giudicato d’Arborea e i re d’Aragona (1328-1430), in Arch. stor. sardo, XXV (1957), 1-2, docc. 6, 10-16, 18, 20, 22-26, 28-35; L. D’Arienzo, Carte reali diplomatiche di Pietro IV il Cerimonioso… riguardanti l’Italia, Padova 1970, docc. 789, 792 s., 798-800, 811 s., 814, 816-819, 822 s., 825 s., 828-831, 834; Append. I, docc. 12 s..; F. C. Casula, Carte reali diplom. di Giovanni I il Cacciatore, riguardanti l’Italia, Padova 1977, docc. 1, 6, 8-10, 26, 28, 35, 51 s., 54, 62, 141 s., 145 s., 153; Saggio di fonti dell’Archivo de la Corona de Aragón di Barcellona relative alla Sardegna aragonese (1323-1479), I, Gli anni 1323-1396, a cura di G. Olla Repetto, Roma 1977, pp. 44-47, 58-72, 96, 98 s.
Per la bibliografia più antica: G. F. Fara, De rebus Sardois, a cura di L. Cibrario, Torino 1835, pp. 308 s., 313-317, e l’ediz. a cura di V. Angius, Calari 1838, III; J. Zurita, Anales de la Corona de Aragón, a cura di A. Canellas Lopez, Zaragoza 1978, IV, pp. 685 s., 705 s., 723 ss., 729, 749 s., 769 s. (opera di capitale importanza ripresa da quasi tutta la storiografia successiva); G. Manno, Storia di Sardegna, Torino 1826, III, pp. 113-150; V. Angius, Oristano, in G. Casalis, Diz. geogr. storico degli Stati di S.M. il re di Sardegna, Torino 1845, pp. 337-346.
Fra le opere più recenti: E. Besta, La Sardegna medioevale, Palermo 1909, II, pp. 56-115; F. Loddo Canepa, La Sardegna attraverso i secoli, Torino 1952, pp. 63 ss.; A. Boscolo, Medioevo aragonese, Padova 1958, pp. 69-97; R. Carta Raspi, Storia della Sardegna, Milano 1971, pp. 596-673; F. C. Casula, Sardegna catalano-aragonese. Profilo storico, Sassari 1984, pp. 42-60; B. Anatra, Dall’unificazione aragonese ai Savoia, in J. Day-B. Anatra-L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna, in Storia d’Italia (UTET), X, Torino 1984, pp. 256-306; F. C. Casula, La Sardegna aragonese, Sassari 1990, I, La nazione sarda, pp. 393-394.
Sulla figura di E. in generale: P. Tola, Diz. biogr. degli uomini illustri di Sardegna, Torino 1837, II, pp. 53-57; P. Martini, Biografia sarda, Cagliari 1838, II, pp. 78-93; C. Bellieni, E. d’A., Cagliari 1929; F. C. Casula, E. d’A., in I personaggi della storia medioevale, Milano 1987, pp. 239-296.
Sulla vita di E. prima della presa del potere e sulla famiglia dei Bas-Serra: R. Carta Raspi, Mariano IV d’Arborea, Cagliari 1934, pp. 160-167; D. Scano, Serie cronologica dei giudici sardi, in Arch. stor. sardo, XXI (1939), 3-4, pp. 80-83; E. Putzulu, Tre note sul conflitto tra Mariano IV d’Arborea e Pietro IV d’Aragona, ibid., XXVIII (1962), pp. 129-159; G. Todde, Pietro IV e la Sardegna…, ibid., pp. 225-242; F. C. Casula, Per una più completa genealogia degli Arborea…, in Studi sardi, XX (1966-67), pp. 7-12; L. D’Arienzo, I possessi catalani dei giudici d’Arborea, ibid., XXI (1968-70), pp. 134-146; M. M. Costa Paretas, La familia dels jutges d’Arborea, ibid., pp. 95-133; L. D’Arienzo, La pace di Alghero stipulata tra l’Aragona e l’Arborea nel 1354, in Medioevo Età moderna. Saggi in onore di A. Boscolo, Cagliari 1972, pp. 121-147; G. Meloni, Genova e Aragona all’epoca di Piero il Cerimonioso, II, (1355-1360), Padova 1976, pp. 57-79; III, (1361-1387), ibid. 1982, pp. 163-186; G. Petti Balbi, Castelsardo e i Doria all’inizio del secolo XIV, in Arch. stor. sardo, XXX (1976), pp. 187-202; Id., Genova e Corsica nel Trecento, Roma 1976, pp. 57 s.; Id., Per la storia dei rapporti tra Genova ed E. d’A., in Medioevo. Saggi e rassegne, IX (1984), pp. 29-41; Genealogie medioevali di Sardegna, Cagliari-Sassari 1984, pp. 297-306, 388-397.
Sulla presa del potere da parte di E.: F. Giunta, Aragonesi e Catalani nel Mediterraneo, Palermo 1953, pp. 189 s.; F. Soldevila, Una nota su Giovanni I d’Aragona e la Sardegna, in Arch. stor. sardo, XXIV (1954), pp. 425-435; A. Boscolo, La politica italiana di Ferdinando d’Aragona, in Studi sardi, XII (1954), p. 63; E. Putzulu, Carte reali aragonesi e spagnole dell’Archivio comunale di Cagliari, Padova 1959, nn. 36, 38; Id., Nuovistudi su E. dA. e Giovanni I d’Aragona, in Arch. stor. sardo, XXVII (1961), pp. 83-97; F. Solsona Climent, Relaciones de la Corona de Aragón con la isla de Cerdeña…, in Atti del VI Congresso intern. di studi sardi, Cagliari 1962, pp. 251-254; E. Putzulu, L’assassinio di Ugone III e la pretesa congiura aragonese, in Anuario de estudios medievales, II (1965), pp. 333-357; M. M. Costa Paretas, Una figura enigmatica: Valor de Ligia, in VIII Congreso de historia de la Corona de Aragón, II, 3, Valencia 1973, pp. 189-201; A. M. Oliva, La successione dinastica femminile nei troni giudicali sardi, in Miscell. di studi medioevali sardo-catalani, Cagliari 1981, pp. 11-43; R. Tanda, La tragica morte di Ugone III d’Arborea…, ibid., pp. 93-115.
Sugli ultimi anni di E.: A. Boscolo, La politica italiana di Martino il Vecchio re d’Aragona, Padova 1962, pp. 82 s.
Sulla Carta de Logu, studi più antichi: Sassari, Bibl. comun., Carte Tola, busta 16: P. Tola, Osservazioni ed appunti relativi alla Carta de Logu; G. F. Simon, Lettera al cav. Tommaso de Quesada sugli illustri coltivatori della giurisprudenza…, Cagliari 1801, pp. 7 ss.; i commenti di G. M. Mameli de’ Mannelli alle Costituzioni di E. … intitolate “Carta de Logu”, Roma 1805; G. Manno, Legislation de l’île de Sardaigne, in Revue de droit français et étranger, I (1844), pp. 1-9 dell’estratto; G. C. Del Vecchio, E. d’A. e la sua legislazione, Milano 1872; C. Soro Delitala, Profili di una storia sulla legislazione in Sardegna, in Riv. econom. della Sardegna, I (1877), 4-5, pp. 31-36.
Tra le opere più recenti sulla Carta de Logu e sul problema dell’individuazione del presunto compilatore si ricordano: A. Solmi, Note sulla Carta de Logu cagliaritana, in Studi in on. di C. Fadda, Napoli 1905; E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in Studi sassaresi, sez. I, III (1905), pp. 3-67; M. Roberti, Le origini della comunione dei beni tra coniugi in Sardegna, in Riv. di dir. civile, VII (1915), pp. 270-331; F. Ercole, Sulla forma originaria della comunione dei beni tra coniugi nel diritto medioevale sardo, in Studi econ. e giurid. d. R. Univ. di Cagliari, XIII (1921-22), pp. 3 ss; F. Loddo Canepa, Carta de Logu, in Diz. archivistico per la Sardegna, I, Cagliari 1926-31, pp. 90-94; A. Era, Lezioni di storia delle istituzioni giuridiche ed economiche sarde, Roma 1934, pp. 321-348; A. Azara, Carta de Logu, in Nuovo Digesto ital., II, Torino 1937, p. 889; C. G. Mor, Le disposizioni di diritto agrario nella Carta de Logu di E., in Testi e documenti per la storia del diritto agrario in Sardegna, a cura di A. Era, Sassari 1938, pp. 35.54; D. Scano, Un giurista arborense, Filippo Mameli, in Arch. storico sardo, XXI (1938), 1-2, pp. 3 ss.; A. Marongiu, Delitto e pena nella “Carta de Logu” d’Arborea, in Studi in on. di C. Calisse, Milano 1939, I, ora in Saggi di storia giur. e pol. sarda, Padova 1975, pp. 75-93; P. Marica, La Sardegna e gli studi del diritto, II, Le fonti, Roma s.d. [ma 1957], pp. 73-87; A. Era, Le “carte de Logu”, in Annuario dell’Univ. d. studi di Sassari, 1959-60, pp. 4-18; E. Cortese, Appunti di storia giuridica sarda, Milano 1964, pp. 1-63, 119-143; A. Rota, Aspetti giuridici della “Carta de Logu” di E. d’A., in Arch. stor. sardo di Sassari, I (1975), pp. 11-38; A. Marongiu, Sulprobabile redattore della Carta de Logu d’Arborea, in Saggi di storia giuridica e politica sarda, Padova 1975, pp. 61-73; Il mondo della Carta de Logu, Cagliari 1979; O. Schena, Una presenza sarda al convegno di Avignone del 1322sulla povertà evangelica, in Clio, XV (1979), 1, pp. 139-155; F. Artizzu, Di Filippo Mameli e di altri, in Arch. storico sardo, XXXII (1981), pp. 125-138; E. Cortese, Nel ricordo di A. Era. Una proposta per la datazione della “Carta de Logu” di Arborea, in Quad. sardi di storia, n. 3, 1981-83, pp. 39-50; M. Tangheroni, Di alcuni ritrovati capitoli della “Carta de Logu” cagliaritana: prima notizia, in Arch. stor. sardo, XXXV (1986), pp. 35-50; B. Fois, Nota storica introduttiva alla Carta de Logu (premessa all’edizione anastatica delle Costituzioni del Mameli), Cagliari 1986; Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medioevale, Pisa 1990, pp. 145-198.
Sulla lingua della Carta de Logu: G. Spano, Ortografia sarda nazionale…, Cagliari 1840, II, pp. 92-95; P. E. Guarnerio, La lingua della “Carta de Logu” secondo il manoscritto di Cagliari, in Studi sassaresi, sez. I, III (1905), 3, pp. 1-73; A. Sanna, La lingua della Carta de Logu, in Il dialetto di Sassari e altri saggi, Cagliari 1975, pp. 121-187.
Sulle edizioni della Carta de Logu: A. Capra, Antica edizione della “Carta de Logu”, in La Bibliofilia, II (1901), pp. 274-280; Id., A proposito della prima edizione della “Carta de Logu”, in Boll. bibl. sardo, III (1903), pp. 77 s.; B. Bruno, Condaghi sardi e Carta de Logu, in Acc. e Bibl. d’Italia, X (1936), p. 45; R. Di Tucci, Librai e tipografi in Sardegna nel Cinquecento…, in Arch. stor. sardo, XXIV (1954), pp. 136-150; L. Balsamo, I primordi dell’arte tipografica a Cagliari, in La Bibliofilia, LXVI (1964), pp. 1-31; Id., La stampa in Sardegna nei secc. XV e XVI, Firenze 1968, pp. 33-49, 120, 132; P. Veneziani, Note su tre incunaboli “spagnoli”, in La Bibliofilia, LXXX (1978), pp. 62-72; Vestigia vetustatum. Documenti manoscritti e libri a stampa in Sardegna dal XIV al XVI secolo, Cagliari 1984, pp. 36-38; G. Olla Repetto, IlQuattrocento in Sardegna, in Cultura quattro-cinquecentesca in Sardegna, Cagliari 1984, pp. 13-18; La Corona d’Aragona: un patrimonio comune per Italia e Spagna (secc. XIV-XV), a cura di G. Olla, Repetto, Arese 1989, pp. 297-301; I. Soffietti, Carta de Logu, in Bibl. reale di Torino, a cura di G. Giacobello Bernard, Firenze 1990, p. 70.
Sull’edizione del manoscritto cagliaritano, curata da E. Besta e P. E. Guarnerio, in Studi sassaresi, sez. I, III (1903-04), pp. 3-72, le recensioni di L. Siciliano Villaneuva in Arch. stor. sardo, II (1906), pp. 331 ss.
Sulle Expositiones de sa lege cfr. V. Finzi, Questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in Studi sassaresi, sez. I, I (1901), 2, pp. 129-153, e la recensione di R. Garzia in Boll. bibl. sardo, I (1901), pp. 133 s.; A. Era, Le cosiddette questioni giuridiche esplicative della Carta de Logu, in Studi di storia e di dir. in on. di E. Besta, Milano 1939, IV, pp. 379-414.
Sulla vigenza della Carta de Logu nell’eta spagnola e sabauda: A. Lattes, Le leggi civili e criminali di Carlo Felice pel Regno di Sardegna, in Studi econ. giur. della Univ. di Cagliari, I (1909), pp. 187-286; M. Da Passano, La repressione penale nel cosiddetto “codice” feliciano, in Mat. per una storia della cult. giur., XI (1981), pp. 91-99; A. Mattone, Gli statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, in Gli statuti sassaresi…, a cura di A. Mattone - M. Tangheroni, Cagliari 1986, pp. 454 ss.; Id., La legislazione, in L’età moderna (vol. III della Storia dei sardie della Sardegna, a cura di M. Guidetti), Milano 1989, pp. 380-392.
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