Il dovere (semplice) del Senato

14 Luglio 2013
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Luigi Saraceni 

Da anni c’è chi sostiene, giustamente, che B. era ineleggibile fin dall’inizio. Non l’hanno voluto ammettere i D’Alema e i Violante, e con loro tutto l’ex PDS. «Ma perché mai, se si è sbagliato finora, il peccato deve essere recidivo?».  Ecco sul tema un intervento di Luigi Saraceni  su Il manifesto, 11 luglio 2013.

Non c’è dubbio che la questione della (in)eleggibilità di Berlusconi - su cui la Giunta del senato prima o poi dovrà prendere una decisione - ha anzitutto un’altissima valenza politica. La “prudenza” del Pd, stretto nell’alleanza delle larghe intese, è del tutto comprensibile. Ma questa esigenza politica non può essere contrabbandata per corretta interpretazione giuridica.
Si dice che non si può dichiarare ineleggibile un soggetto che ha riscosso nelle urne un ampio consenso popolare. L’argomento è davvero singolare.  Nel nostro sistema le cause di ineleggibilità vengono sempre accertate dopo l’elezione, perciò, se si applicasse questo criterio, nessun eletto potrebbe mai essere dichiarato ineleggibile. Né potrebbe valere un criterio quantitativo. Dove collochiamo la soglia oltre la quale il numero dei voti dovrebbe prevalere sulla regola? La verità è che questo argomento, non insolito anche a sinistra, trascura che il rispetto delle regole è, insieme al consenso elettorale, uno dei fattori fondanti della democrazia rappresentativa.
Un altro singolare argomento dice che non si può applicare una legge di oltre mezzo secolo fa, quando le tv private neppure esistevano. A questa stregua alle aziende televisive non si potrebbero applicare neppure le regole del codice civile, visto che risale al 1940.
Un argomento, proposto anche da valenti giuristi, dice che non si possono oggi contraddire le ripetute e risalenti affermazioni che hanno escluso la ineleggibilità di Berlusconi in quanto titolare non “in proprio” di concessioni televisive. I “precedenti” hanno certamente un valore che non si può ignorare. Ma, come tutti sanno, nessuna pronuncia di natura giurisdizionale è vincolante per le decisioni successive ed anzi, se si riconosce che è sbagliata, è doveroso correggere l’errore. Ne sono esempio non solo le giurisprudenze dei giudici ordinari, compresa la Cassazione, ma anche le decisioni della Corte costituzionale su questioni di grande rilevanza. Per quarant’anni la Consulta ha tollerato che il governo legiferasse attraverso la ininterrotta reiterazione di decreti legge mai convertiti, finché nel 1996 non ha posto fine a questo malcostume istituzionale. E solo dal 2007, dopo averlo negato per cinquant’anni, ha stabilito che un decreto può essere annullato anche dopo la sua conversione, se non ricorrono i presupposti di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione. Il Senato, dunque, deve dire in piena autonomia se le precedenti decisioni della Camera - secondo le quali il destinatario della ineleggibilità sarebbe solo l’intestatario formale della concessione e non il suo effettivo beneficiario - sia conforme alla “intenzione del legislatore”, da cui, secondo le regole dell’interpretazione, non si può prescindere nella ricostruzione del vero significato della legge.
Orbene, è già irragionevole supporre che il legislatore del 1957 sia stato così insensato da escludere dalla ineleggibilità il dominus delle società commerciali, che certamente più del formale intestatario della concessione è interessato a sovrapporre la cura degli interessi economici della società concessionaria all’esercizio della funzione parlamentare. Ma, ove ce ne fosse bisogno, il legislatore ha chiarito la sua intenzione quando, per la prima volta nel 1990, ha disciplinato proprio la specifica materia delle concessioni dell’etere a società private. Con l’art. 17 della legge n. 223/90 (legge Mammì), il legislatore ha detto chiaramente che le predette società possono ottenere la concessione a condizione che «siano comunque individuabili, le persone fisiche che detengono o controllano le azioni aventi diritto di voto». Si tratta, palesemente, della estensione delle regole che disciplinano le società concessionarie all’azionista di riferimento, che viene equiparato, nel suo “statuto”, agli organi formali della società.
Questa interpretazione di elementare buon senso è stata fatta propria nel 2004 dalla Consulta, che nella sentenza n. 86 ha affermato che le disposizioni della legge n. 223/90 «devono essere interpretate nel senso che non solo le persone fisiche concessionarie, ma anche i soggetti che effettivamente controllino, direttamente o indirettamente, le società concessionarie» sono destinatari della disciplina prevista nel citato art. 17. Perciò l’equiparazione dell’azionista di riferimento di società commerciali concessionarie dell’esercizio di impianti televisivi a chi è titolare “in proprio” di tali concessioni, non può essere ignorata, se non a costo di violare il dettato costituzionale.
In conclusione, i termini giuridici della questione sono chiari ed evidenti. Spetta ai componenti della Giunta dire se su di essi deve prevalere la ragione politica. Ma è auspicabile che la discussione non rimanga confinata alla fase preliminare e segreta che si conclude con l’archiviazione. Il Pd dovrebbe avvertire il dovere di assicurare ai suoi elettori una discussione pubblica almeno in Giunta, se le larghe intese proprio la sconsigliano nell’assemblea plenaria di Palazzo Madama.

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