Giulioo Lobina
L’altro ieri a Gavoi si parlava di Germania e Gran Bretagna. Si parlava, meglio, di come la Germania e la Gran Bretagna vedessero gli italiani. Aldilà degli stereotipi più classici che attanagliano le tre Nazioni rappresentate da tre giornalisti sul palco di una tendopoli con le vele spiegate (una bellissima piazza di Gavoi ove, per protegger i lettori-ospiti dal sole, erano state disposte decine e decine di vele di panno e persino l’irrigazione che seguiva il vento e non il volere degli architettimprovvisati della nave con le vele spiegate), non si è parlato di Sardegna.
Eppure il luogo era quello giusto.
Il luogo era quello giusto perchè, manco a farlo di proposito tra il pubblico era pieno zeppo di politici, tra gli altri. Ho stretto le mani a PD e IDV (tra correnti e naufraghi), a Rosso Mori e Sardisti (separati in casa), Riformatori sardi (nascosti tra la folla) e gente del PDL (ci sono sempre ma nessuno ha mai votato Silvio). Insomma, c’era buona parte della Sardegna che conta. Buona parte, come dico io in Consiglio Comunale, della Sardegna che VOTA e DELIBERA e decide anche per gli altri.
Ma non si è parlato di Sardegna. Avevamo la possibilità di chiedere all’Irlandese “britannica” cosa ne pensasse di una Terra Sarda che, per certi versi e mai seriamente (centu concasa centu berrittasa) mira all’indipendenza, e avevamo anche la possibilità di chiedere alla giornalista tedesca ormai con l’accento “de Roma bella” se mai la Sardegna con le sue forze avrebbe mai raggiunto una indipendenza almeno “morale”, ma nulla.
L’unico che parlava di indipendenza, ieri, era un libro muto di Bandinu nella parte in cui è scritto in sardo. Nel suo sardo. Il mio sardo è diverso dal suo e anche il vostro è diverso dal mio. E sì, siamo un popolo, ma anche nella lingua ci distinguiamo bene e si fa a gara per quale sia “la norma”, anzichè pensare che continuando così la “norma-lità sarà perdere anche quel poco della lingua parlata che conosciamo e che non si insegna mai a scuola.
Comunque, potevamo parlare di Noi, dei sardi, ma persino il pubblico parlava di Berlusconi. Un fantasma che cammina, a dire del giornalista italiano. E io che pensavo che solo noi ex dipietristi o dipietristi fossimo additati come quelli “fissati” con Silvio. Mah…
C’è stata una domanda dal pubblico. Una di quelle domande colte e già, dico io, preparate. Una domanda che partiva da una ragazza seduta accanto a mio fratello Davide, nella fila di sedie bianche proprio davanti alla mia. Una ragazza, un po’ tremante nella voce, in piedi e con il microfono in mano chiedeva perchè noi in Italia usiamo tantissimo la parola “bella” (Bella giornata, bel libro, bella persona) e invece in Germania si preferisce usare la parola “buona”.
L’hanno finita a perdersi sul contenuto. Sul fatto che i tedeschi preferiscono dire: “E’ un buon libro” perchè fanno riferimento più al contenuto…e noi invece siamo quelli più superficiali, quelli che secondo loro stanno più attenti all’apparenza. Non lo so, non so se sia così. Persino la britannica-irlandese del Grand Council ha chiuso l’argomento con un: “Noi non prendiamo posizione, per tutto diciamo “nice”.
Eppure, col Romanticismo tedesco che nasce poco dopo la riscoperta neoclassica degli ideali greci del “bello e del buono “avrebbero dovuto ricordarsi quanto raccontava J.J. Winkelmann, e ciò quell’ideale di bellezza che non solo non ha difetti, ma ha in sè la vita e ci fa piangere, rallegrare e commuovere. Insomma, avrebbero dovuto ricordarsi che la bellezza è bontà e che ciò che è bello, è giusto. Ciò che è giusto è anche bello. Non esiste l’una senza l’altra.
Noi siamo un popolo “bello e buono” ma abbiamo uno strano concetto:
Candu unu esti bonixeddu e’ tontazzu!! Candu unu esti bellu mera, e’ mallu!
Noi sardi usiamo intendere che i valori del bello e del buono a volte si fondono. (Bella genti per noi significa anche gente buona), altre volte invece siamo così restii all’idea d’esser comunque un popolo sovrano nell’Isola delle storie che prendiamo per buono tutto quello che ci dicono gli altri.
Dov’è allora l’identità del nostro popolo?
Forse sarebbe il caso, allora, prima di parlare di indipendenza, prima di rincorrere idee meravigliosamente sognanti di “Un popolo, una terra, una Nazione”…sarebbe il caso di ricordarci o di capire che manca l’identità. A noi sardi manca ancora l’identità.
Perchè quando perdiamo la nostra lingua, perdiamo tutto. Quando muoiono le donne anziane di Gavoi o Ollolai o Ottana che ancora vestono il costume giornalmente, perdiamo tutto. Noi perdiamo tutto quando non vedi più i pastori che mungono con le mani, perdiamo tutto quando i nostri giovani se ne vanno perchè qui non c’è lavoro, perdiamo tutto quando i comuni danno l’acqua alle campagne e agli agricoltori solo una volta la settimana, perdiamo tutto quando pensiamo sempre e solo a quale Candidato Governatore scegliere per avere più voti anzichè quale programma portare avanti.
Perdiamo tutto quando teniamo sulla bocca, gridata, la parola INDIPENDENZA ma perdiamo completamente la parola IDENTITA’.
Non esiste popolo senza identità, ma, allo stesso modo, non esiste individuo senza identità.
A Gavoi era pieno di politici tra i lettori. Pieno. E si formavano dei piccoli cerchi e tutti li a parlare di alleanze. Nessuno parlava di identità. Nessuno. E allora? Come ricostruiamo questa Terra sarda senza un progetto di sviluppo locale allargato?
Gavoi è un polmone di cultura e conoscenza per la Sardegna. Ci vorrebbero centomila Gavoi per ripartire. Ci vorrebbe quel tramonto in più sul lago di Gusana che ieri notte era rosso d’imbarazzo perchè di tutto s’è parlato ieri, persino d’Europa, ma non ho sentito nessuno parlare di Sardegna.
A parte Bandinu, naturalmente, ma era chiuso nella borsa che avevo con me.
Per riprenderci la Sardegna dobbiamo prima riprenderci l’identità. Altrimenti non siamo nulla.
A volte sembriamo solo isolani insonni isolati con una insolazione perenne, dimèntichi della bellezza e della bontà del luogo in cui viviamo. Altre volte siamo tutti pronti a candidarci per salvare questa terra.
Poi però l’Europa paga i viticoltori sardi per estirpare le viti…e nessuno dice nulla. Nessuno dice nulla. Ci prendiamo i soldi come Giuda e perdiamo un altro po’ di noi. Come sotto un lenzuolo di pesantezza che ci soffoca nel silenzio generale della politica.
O i giovani sardi combattono una battaglia di cultura e bellezza, o ce ne andiamo come il sole sul lago di Gusana: imbarazzati. E non è questione di creare un polo indipendentista unito, è questione di abbracciare l’idea che l’unione dei sardisti non sia solo “pro elezioni”, ma programmatica per una Sardegna che possa contare in Italia ora e in Europa poi.
Siamo e dobbiamo essere cittadini del mondo.
2 commenti
1 Aldo Lobina
9 Luglio 2013 - 17:04
Mi pare che si possa dire che in Sardegna non esistono al momento forti istanze né indipendentiste né autonomiste. Ai personaggi che attualmente le incarnerebbero non affiderei la mia tartaruga. Il grande partito dei Sardi che qualcuno ha vagheggiato è una utopia, perché all’interno di una idea di nazione convivono forze progressiste e conservatrici, democratiche e non. Rischia di essere solo il contenitore per facilitare carriere politiche di personaggi in cerca di venti favorevoli da sfruttare. Finché i Sardi, tutti i Sardi dico, quelli di destra, di sinistra, di centro, di su e di giù… non diventeranno protagonisti del loro destino lo subiranno. Bisogna ripartire dal lavoro, far diventare il deserto delle nostre campagne campi fertili in cui produrre ricchezza. Far ripartire ora - senza aspettare le illuminazioni di Gavino Sale o di Bobore Figumorisca- le industrie collegate alla agricoltura, moderna. Incoraggiare i nostri giovani talenti a stare o a tornare qui per progetti realizzabili nel campo delle energie alternative. Aprirsi al mondo con dignità e intelligenza obbliga ad una crescita culturale capace di offrire un modello di sviluppo esportabile. Finché i Sardi non matureranno una comune consapevolezza che è il lavoro, il vero fondamento di ogni nazione, e non lo cercheranno e reinventeranno con ostinazione, accontentandosi dell’elemosina altrui, non potranno che seguire improbabili re o regine di isolette battute da un vento cattivo. Ma senza speranza. Prima il lavoro dunque. Che sappia valorizzare anche il patrimonio inestimabile naturale, antropologico, linguistico, che ci qualifica.Purtroppo eleggiamo una classe politica che è costituita per gran parte da gente che non sa cos’è il lavoro, che forse non ha mai lavorato. Basta guardarsi attorno a partire dai nostri Comuni . Ci sono “politici” di professione la cui unica ricchezza prodotta sono i loro emolumenti. Cominciamo da qui. Imparando a sceglierci meglio i nostri rappresentanti. Chiedendoci cosa vogliamo noi e se chi vorrebbe rappresentarci corrisponde al progetto che noi vorremmo contribuisse a realizzare. Chiediamoci chi è quello che si propone o viene proposto,chiediamoci se è prima di tutto uomo o donna “libera” , valutiamone le proposte, quanto sia in grado di argomentarle, da quale “pulpito” parli, chi siano i suoi compagni di viaggio…Non dimenticando mai, oggi più che mai, che il futuro dei Sardi sta nell’aprirsi all’Europa e ai suoi popoli e ai popoli del mondo con rispetto e dignità.
2 giampaolo pisu
10 Luglio 2013 - 08:34
Questo evento dovrebbe essere finanziato non con la legge 7 ma con una legge nazionale o europea vista la connotazione della manifestazione: la letteratura sarda (che è solo quella scritta in sardo) mi parrit chi no ddoi siat, e duncas nosu sardus ita fadeus, poneus sceti cosa de papai? Pani, casu e binu nieddu? Cultura nudda?
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