Carlo Dore jr.
Mentre le varie componenti del PD iniziano a definire le rispettive posizioni in vista dell’ormai prossimo congresso, il “neo-iscritto” Fabrizio Barca percorre la Penisola in lungo e in largo per illustrare a iscritti, militanti, semplici elettori la sua idea di partito, in gran parte riversata in cinquanta pagine dense di riflessioni, proposte, spunti di discussione. Il tono è quello pacato di chi predilige il confronto allo scontro, il linguaggio quello dello studioso che dimostra di sentirsi ancora più a suo agio in un’aula universitaria che nel bel mezzo dell’agone politico. Ma la storia personale dell’ex ministro del governo Monti merita rispetto ed attenzione, come rispetto ed attenzione meritano i passaggi fondamentali del suo documento.
Girando per i circoli, per le sezioni, per i teatri, Barca non parla di candidature, né ragiona di alleanze o di futuri assetti di potere. Osserva, prende appunti, ascolta, interroga e si interroga: cosa vogliamo dal PD? E soprattutto: di che tipo di partito abbiamo bisogno? Al di là dei troppo elevati riferimenti al “catoblepismo”, le risposte suonano confortanti per un elettorato non ancora riavutosi dal trauma del post-voto, e che – indipendentemente dalle dichiarazioni di facciata – non riesce proprio a digerire l’indigeribile prospettiva delle larghe intese.
Si parte dall’idea del “partito palestra”, del partito concepito come centro di elaborazione di idee e programmi e come luogo di formazione della classe dirigente. La rigorosa scissione tra incarichi di partito ed incarichi istituzionali smorza rampantismo e ambizioni personali di telegenici dirigenti in carriera, il superamento del “mantra delle primarie” – artificiosa camera di compensazione per debolezze strutturali e lotte intestine – restituisce ad iscritti e “partecipanti” la loro centralità: il partito torna ad essere partito, riappropriandosi della sua naturale funzione di strumento volto a favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale.
Proprio la necessità di provvedere all’espletamento di tale funzione presuppone però l’esistenza di un partito capace di declinare una linea programmatica incisiva ed intellegibile, obliterando il sistema di veti incrociati tra rappresentati di culture inconciliabili. Grande rilievo assumono allora i continui riferimenti ai principi della Carta Costituzionale, del cui sistema di garanzie democratiche anche alcuni improvvidi esponenti del centro-sinistra auspicano lo smantellamento; e determinante appare soprattutto l’intendimento di imporre al PD un profilo da “ partito di sinistra”, da perseguire anche a costo di affrontare la ridda di niet opposta dalla componente post-democristiana. Il PD come partito “di sinistra”: come partito che pone i temi del lavoro, delle diseguaglianze sociali, della tutela dell’istruzione e della sanità pubblica al centro delle proprie scelte programmatiche. Questo è il partito che Barca ha in mente, questo è l’obiettivo della proposta di Barca.
Alla vigilia di un congresso che rischia di trasformarsi nell’ennesimo redde rationem tra le varie anime democrat, ancora non è dato sapere quanto respiro avrà il progetto dell’ex ministro, né quali candidati alla segreteria nazionale si faranno concretamente portatori dei contenuti che il documento offre. Ma gli interrogativi su cui Barca fonda la sua analisi non potranno non essere affrontati nella discussione sul modello di partito che dovrà affrontare le sfide dell’immediato futuro. Un partito strutturato ed autonomo, un partito della Costituzione ed un partito di sinistra: concetti semplici, la cui incisività non è attenuata dai riferimenti al catoblepismo; concetti semplici, che bastano a rendere interessante e condivisibile la proposta di Barca.
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