Letteratura e vita secondo Camilleri

16 Giugno 2013
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Gianna Lai

La laurea honoris causa conferita qualche settimana fà ad Andrea Camilleri dall’Università di Cagliari è un evento culturale di grande rilievo, di cui è bene parlare ancora.

Letteratura e vita, si può intitolare la Lectio Magistralis di Camilleri, in Rettorato,. secondo quel modo di intendere la scrittura come fosse intrecciata alla vicenda di ciascuno, scrittore o lettore che sia. Da Mastro don Gesualdo a La coscienza di Zeno, all’ esperienza familiare diretta dello scrittore Camilleri. Perché, se in Mastro don Gesualdo di Verga, i rapporti problematici tra padri e figli si incentrano nel  mito della roba, destinata alla dispersione per mancanza di un erede capace di gestirla, in letteratura le  variazioni sul tema sono moltissime. Il contrasto generazionale, da  Pirandello alla Deledda, a Tozzi. Non sempre il contrasto è con un padre padrone, può esserci un sostituto della figura paterna. Il movente del contrasto tuttavia è lo stesso, la roba, la proprietà. Colui che ha accumulato la roba nutre il timore che chi la erediterà non sarà in grado di mantenerla, perché incapace, o perché presenta idee diverse  rispetto alla tradizione.  Padri e figli, due mondi chiusi nelle loro certezze, che non sentono la necessità del dialogo, in una ricca e stimolante letteratura innovativa, che si fonda sul  contrasto di idee e di  ideali, di  modi di intendere la vita. E le lacerazioni, a questo punto, non sull’avere ma sull’essere: i vecchi e i giovani di Pirandello,  in un contrasto generazionale che esce dalla famiglia e investe la società. I vecchi, che hanno combattuto per l’Unità d’Italia, chiusi in un vero  isolamento, si adattano ai tempi. I giovani che non hanno perduto la fede nell’Unità, credono invece nel socialismo, pur destinati a cocenti sconfitte. E, sempre in primo piano, il profondo disagio dell’essere figlio, un’insofferenza contro le regole, tra tutte quelle allusioni politico-sociali, che rimandano alla storia e alla vita del tempo. Fino ai giorni nostri, senza mai smettere di essere potente messaggio per la comprensione del mondo. Come ne La Coscienza di Zeno, la finzione dell’autobiografia dentro la storia di una  terapia psicoanalitica, dove la figura del padre si delinea attraverso lo sguardo parziale e non obiettivo del figlio. Zeno non ha niente da imparare dal padre, che lo considera anzi un  pazzo, fino a  essere dichiarato sano di mente dalla visita medica, cui ha voluto sottoporsi. E si delinea così, già  dalle prime pagine, la mancanza di ogni forma di dialogo, l’incapacità nella comunicazione, che porta ad una reciproca diffidenza e lontano da ogni possibile condivisione di esperienze e di idee. Il fatto è che per capire i giovani bisognerebbe vivere la loro condizione esistenziale. E se i figli credono di avere ragione a giudicare negativamente il padre, senza tuttavia  conoscerne le profonde interiorità, per capire i padri, occorrerebbe che anche i figli fossero, a loro volta, contemporanei. E legati a quelle esperienze da sentimenti reciproci, in grado di essere comunicati. Perché, forse, l’ impedimento a comunicare sentimenti  deriva dall’ inconscia volontà di non vedere l’uomo, sotto l’immagine corazzata del padre. Zeno non abbandona più il padre quando sa della sua grave malattia, e alla parola non detta, tra padre e figlio, si sostituisce lo schiaffo in punto di morte, che al momento Zeno considera punitivo. Ma che  in seguito avrà un’altra valenza per lui, nel  ricordo sempre più dolce del padre, man mano che il tempo passa.  ‘E qui  trovo la continuità della mia  esperienza, ha concluso Camilleri, nel rapporto con mio padre, un uomo di buone letture, ma sempre su  sponde opposte. Io comunista repubblicano, lui liberale monarchico, nel dopoguerra, dopo aver aderito al fascismo da giovane. Durante i referendum non scambiammo una parola. Cosa ho fatto di male nella vita per avere un figlio comunista?, si chiedeva sconsolato, e degenerava sempre la nostra discussione, e in modo rabbioso. Ma si svenò, insieme a mia madre, per aiutarmi a trovare la  strada che desideravo. E solo quando stava per morire sentii la necessità assoluta di riaprire il discorso interrotto nel passato. Allora le parole iniziarono a scorrere tra noi senza intoppi e reticenze. Come era successo a Zeno e al padre, parlammo di tante cose, e di religione, dopo che rifiutò al prete la confessione. Ci riconoscemmo l’un l’altro, pacificati in quel tempo sospeso e, avendo parlato a lungo di noi, egli volle che gli raccontassi  una storia. Ed io la narrai nella nostra lingua, e a lui  piacque, e si fece giurare che l’avrei scritta, usando lo stesso modo e le stesse parole. Fu poco prima di morire, era quasi l’alba che, seduto nel letto con gli occhi aperti e con voce come  non fosse la sua, mi chiamò ‘ Tenente Camilleri’. Aveva combattuto la Prima guerra mondiale nella Brigata Sassari, agli ordini di Emilio Lussu, verso il quale nutriva un’autentica venerazione. Si alterò e mi chiamò con voce ancora più imperiosa e, rivivendo  un momento di guerra, io divenivo lui, lui era Lussu. ‘Si defili, non vede che è sotto tiro. Si defili o vuole mostrarci il suo coraggio, coglione di un siciliano!’ Ricadde poi e io, scosso gli presi la mano. E mi disse che potevo uscire a fumare. E lo trovai morto quando tornai nella sua stanza’.

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