“Italia burning”

6 Ottobre 2008
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Manuela Scroccu

Ancora non abbiamo finito di piangere sulla tomba di Abdul Guibre, ucciso a sprangate nella notte milanese al grido di “sporco negro”.
Ancora non si è spenta la rabbia della comunità di immigrati di Castel Volturno, che ha seppellito sei ragazzi nell’indifferenza della stampa e dell’opinione pubblica che avrebbero voluto liquidare frettolosamente la questione come una storia di bande rivali. Soltanto ieri, cercavo di spiegare ad un mio conoscente perplesso che no, non erano spacciatori uccisi da un clan rivale i sei ragazzi immigrati freddati nel napoletano; che la loro colpa, se proprio si deve cercare una colpa in queste morti, era quella di essere lavoratori clandestini sfruttati dal capolarato, gli ultimi degli ultimi, buoni solo come animali da soma; che i giornali avevano parlato di regolamento di conti tra spacciatori soltanto sulla base di un pregiudizio razziale; che gli inquirenti hanno appurato che la camorra ha messo in atto una vera e propria strategia della tensione attraverso l’organizzazione di una “caccia al nero”; che quei giovani non avevano niente a che fare con il crimine e che sono stati uccisi solo per il colore della pelle. Non l’ho convinto, si vedeva che pensava: propaganda dei giornali comunisti. Niente può scalfire le granitiche certezze di un certo tipo di italiano medio: l’Italia non è razzista, sono loro che sono negri. Ed ecco che, prima ancora di dire “Borghezio”, è successo di nuovo.
Un’altra storia edificante di sindaci sceriffi, ordine e tolleranza zero. Emmanuel Bonsu Foster, studente lavoratore di 22 anni di origine ghanese che frequenta le scuole serali dell’Itis di Parma, ha raccontato di essere stato fermato da sette agenti della polizia municipale che l’avrebbero braccato, pestato e insultato con epiteti razzisti. Trasportato in commissariato, gli agenti, evidentemente addestrati con il metodo “scuola Diaz”, hanno cercato di costringerlo a confessare di essere uno spacciatore e soltanto dopo ore l’hanno rimandato a casa con una simpatica busta omaggio con la scritta Emmanuel Negro.
C’è stato un tempo in cui la polizia municipale, i vigili per intenderci, al massimo ti rincorreva per una multa al grido di “allora, concilia”? Oggi, nel paese che ha inventato “l’aggravante razziale”, rincorre giovani studenti al grido di “sporco negro”.
E’ stato un fermo movimentato. Così si sono giustificati alla polizia municipale di Parma. Emmanuel è stato preso per un pusher e, siccome si è dato alla fuga, è stato fermato dagli agenti e portato in commissariato per l’identificazione. Violenza, no. Per carità! I lividi e l’occhio nero se gli è fatti da solo, cadendo. E la scritta razzista? II vigili non sanno, dicono che la busta era bianca: l’avrà scritta lo stesso giovane, dicono. Saranno gli inquirenti a cui sono state affidate le indagini dopo la denuncia del giovane e della sua famiglia a vagliare l’attendibilità di questa ricostruzione. La verità è che Emmanuel, guarda un po’ le stranezze della vita, non era uno spacciatore. Anzi, tra pochi giorni sarebbe andato a prestare la sua attività come volontario in un centro di recupero per tossicodipendenti. Emmanuel, semplicemente, passava di lì. Si faceva una passeggiata in attesa dell’inizio delle lezioni, pensando ai fatti suoi. Ma siccome era nero, allora doveva essere per forza uno spacciatore. E siccome era nero e spacciatore meritava insulti e botte, secondo una particolare interpretazione del diritto penale che deve essere molto in voga di questi tempi tra sindaci sceriffi e affini.
Succede in Italia, e succederà ancora. Perché la paura dell’immigrato che ruba, spaccia e si nasconde armato negli angoli bui delle nostre periferie per aggredirci o violentarci è cresciuta in misura proporzionale all’ossessione per la sicurezza. Perché ossessione e paura, debitamente coltivate e alimentate con sapienti campagne mediatiche, hanno generato mostri che diventeranno sempre più difficili da governare. Perché anche la sinistra, per comodità o incapacità, ha ceduto al fascino dell’allarmismo e delle campagne sulla sicurezza.
Ormai questo male oscuro, nutrito da un redivivo pensiero neofascista e dall’odio seminato da anni di propaganda xenofoba, è penetrato nel tessuto vivo del paese. Neanche l’equazione ambigua tra immigrato clandestino e criminale, che tentava di nascondere il pregiudizio con la tolleranza per l’immigrato buono, quello regolare che lavora in silenzio e non sporca, funziona più. “Non possiamo andare in giro con un’etichetta per distinguerci” ha detto un giovane afroitaliano, intervistato da Gad Lerner durante la scorsa puntata de L’Infedele. O forse si, forse qualcuno proporrà di marchiare i regolari, ma solo per il loro bene. In realtà, l’hanno già fatto con i bambini rom. A sessant’anni dalle infami leggi razziali.
Bisogna avere il coraggio di dire, come ha fatto il responsabile della Caritas italiana don Vittorio Nozza in un’intervista all’Osservatore Romano, che i principi di accoglienza, tolleranza e convivenza che hanno ispirato la nostra Costituzione e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo non sono più condivisi da una parte sempre più consistente della popolazione italiana. E’ nei fatti. Chi in questi valori ancora crede ha il dovere morale di impegnarsi per contrastare questa  pericolosa deriva reazionaria e xenofoba. Deve trasformarsi in portatore sano di democrazia, aderendo alle manifestazioni di protesta, scrivendo articoli, indignandosi. Fate un po’ voi. Non è tempo di girarsi dall’altra parte.

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