“Benicomunismo” e crisi della società capitalistica

22 Maggio 2013
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Gianfranco Sabattini

L’ultimo Rapporto dell’”Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale” ripropone il problema dell’inquinamento e del deterioramento delle risorse naturali. Anche in Italia, il dibattito sulla dissipazione dell’ambiente imputabile alle logiche di mercato è oggetto di numerosi studi, tutti pervasi dall’idea che i cosiddetti beni comuni (commons, secondo la terminologia anglosassone), i beni cioè che, non definibili sulla base di tratti ontologici specifici e necessari per soddisfare i bisogni fondamentali della vita, sono sottoposti, come afferma Ugo Mattei, al condizionamento di “una tenaglia letale: l’asse fra lo Stato e la proprietà privata che si è venuto sviluppando in modo sempre più esaustivo di ogni alternativa alla modernità in Occidente” (MicroMega, 3/2013). A fronte di questa “tenaglia” è necessario rifiutare la tradizionale differenza tra pubblico e privato, senza però che ciò significhi che i beni comuni possano essere governati da una sorta di “terza via” istituzionale; considerata la loro particolare destinazione, per essi s’impone più convenientemente un’”alternativa di sistema”. Con una possibile “terza via”, si correrebbe il rischio che il concetto di beni comuni sia degradato dal passaggio da una definizione rivoluzionaria e innovativa ad una, di per sé fallimentare, compatibile con la prospettiva di uno “sviluppo sostenibile”, suggerito da un mercato che ha reso a sé omogeneo lo Stato.
I beni comuni, veicolando una visione del mondo ed un’idea di società diversi da quelli evocati dai due concetti tradizionali di Stato e di mercato, non possono essere salvaguardati da una prospettiva di azione politica finalizzata al perseguimento di una sviluppo perfettamente omogeneo al mercato. Allo stato attuale, perciò, considerato il potere del mercato e la subalternità ad esso dello Stato, un riformismo politico, pensato in funzione di una possibile forma di governo dei beni comuni, “non potendo funzionare come orizzonte di trasformazione”, è destinato a ridursi a mera pratica reazionaria, in quanto in esso si rifletterebbe la “contaminazione letale” della sfera pubblica subordinata al mercato ed al capitale in esso operante. Occorre, al contrario, un’azione politica locale e globale, sorretta da “buone pratiche accompagnate da un’ottima teoria”.
La “critica benicomunista” e le proposte suggerite per innovare l’attuale struttura istituzionale e produttiva dei sistemi sociali dell’Occidente sono poco realistiche e sono rese poco intelligibili dalle spesse nubi ideologiche che le avvolgono; ciò perché riecheggiano le tesi di Serge Latouche e di tutti i decrescisti e, al pari delle critiche e delle proposte di questi ultimi, mancano di specificare attraverso quale transizione sarebbe possibile pervenire ad un modello organizzativo dei sistemi sociali capitalisti in grado di salvaguardare il governo autonomo dei beni comuni.
In linea di principio, il dominio attuale che il mercato esercita sullo Stato non è irreversibile e la sua reversibilità rende plausibile pensare ad una progettualità politica non ideologizzata e molto realistica. A fronte del rischio di una crescente dissipazione dei beni comuni è possibile, infatti, ipotizzare, non la rinuncia a tutte le potenzialità che la civiltà moderna rende disponibile, ma l’inaugurazione di un’attività politica fondata sulla contemporanea considerazione di fattori di continuità e di cambiamento; ciò consentirebbe di capitalizzare l’esperienza ereditata dal passato, nel senso che con essa sarebbe possibile non solo “legare” il presente al passato ed al futuro, ma anche disporre di una realistica chiave interpretativa del processo evolutivo dei sistemi sociali. L’esperienza del passato supporterebbe così i provvedimenti innovativi adottati nel presente, ma la riorganizzazione istituzionale e produttiva dei singoli sistemi sociali dipenderebbe dal modo in cui le singole società civili si mostrassero propense ad accettare i provvedimenti innovativi in funzione del perseguimento della ristrutturazione dell’intero sistema sociale, aperto al governo dei beni comuni secondo forme alternative a quelle compatibili con l’esistente asse Stato-mercato.
Questa prospettiva di azione politica per la transizione verso forme di governo più adeguate dei beni comuni implicherebbe la soddisfazione di due condizioni: innanzitutto, che la transizione istituzionale sia di sostegno al processo di ristrutturazione delle attività produttive; in secondo luogo, che l’organizzazione della società politica intensifichi la propria ristrutturazione in senso democratico per approfondire ed allargare le proprie relazioni con la società civile sulle base di regole completamente diverse rispetto al passato. Gran parte degli insuccessi accusati sul piano operativo dai sistemi sociali che si sono aperti o che si aprono ora a forme innovative di governo dei beni comuni è riconducibile, oltre che alle difficoltà dovute ai deficit teorici che ancora permangono sulle forme più convenienti della loro gestione, al fatto che le trasformazioni realizzate sul piano strettamente istituzionale non hanno proceduto parallelamente alle trasformazioni che sarebbero state necessarie sul piano economico. Nolenti o volenti, anche quando i beni comuni saranno sottratti al “ricatto politico della discrezionalità fiscale” del tipo di quella della quale soffrono oggi i diritti sociali soddisfatti dal welfare State esistente, dovranno pur sempre essere gestiti economicamente; in caso contrario e sin tanto che si continuerà a “filosofare” in termini di diritto ed a pensare che i fruitori dei beni comuni siano tutti pervasi da un generalizzato e radicale “spirito angelico”, il governo dei beni comuni sarà sempre destinato a “subire le pene” della “tragedia dei commons”, per essere cioè costantemente assoggettati, alternativamente, a sovraconsuno o a sottoutilizzazione, con pregiudizio degli interessi dei loro fruitori.
 

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