Il mercato autoregolato? Una mistificazione

19 Maggio 2013
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Gianfranco Sabattini

La base principale della critica di Karl Paul Polanyi al credo liberista è il suo saggio La grande trasformazione; i temi in esso contenuto sono oggi riproposti nelle raccolta di testi inediti “Per un nuovo Occidente. Scritti 1919-1958”. La tesi fondamentale di Polanyi è la negazione della “naturalità” della società fondata sul funzionamento al suo interno di un mercato autoregolato, ai cui limiti imputa, per gli eventi che si sono succeduti nei primi trent’anni del XX secolo, la crisi strutturale delle società industriali, per il crollo delle quattro istituzioni sulle quali erano state costruite: il sistema dell’equilibrio di potere che per un secolo aveva dato l’illusione che tra le grandi potenze non potessero più scoppiare guerre prolungate e devastanti; la base aurea internazionale, che simboleggiava l’organizzazione unica dell’economia mondiale; il mercato autoregolato che avrebbe dovuto produrre un benessere economico senza precedenti; lo stato di diritto liberale.
Per Polanyi, l’idea di un mercato autoregolato era una mistificazione, in quanto considerava lavoro, terra e moneta alla stessa stregua degli altri beni materiali. Sennonché, per Polanyi, il lavoro era solo un altro nome per indicare un’attività umana che si accompagnava alla vita stessa; questa non era prodotta per essere venduta. Anche la terra era soltanto un altro nome per designare la natura che non era prodotta per il mercato. La moneta infine era solo un simbolo del potere d’acquisto che si formava e si sviluppava attraverso processi convenzionali. Nessuno di questi elementi poteva, perciò, essere considerato un prodotto per la vendita; la loro considerazione come beni e servizi prodotti per il mercato era interamente fittizia. Ciò non ostante, era attraverso questa finzione che erano organizzati i mercati del lavoro, della terra e della moneta. Ma permettere che il meccanismo di mercato fosse l’unico elemento regolatore del destino degli esseri umani e del loro ambiente sociale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto portava solo alla disgregazione del sistema sociale.
Nessun sistema sociale poteva sopportare gli effetti del funzionamento di un sistema economico fondato su rozze finzioni, neanche per il più breve periodo di tempo, a meno che l’uomo, la natura e l’organizzazione economica e sociale non fossero protette dagli esiti negativi originati dal meccanismo del presunto mercato autoregolto. Gli effetti disgregatori di questo, per quanto abbiano dato luogo ad una serie di resistenze a difesa dell’uomo e della natura, non hanno messo in crisi il liberismo, perché legittimato dalla ricchezza prodotta anche se distribuita iniquamente; esso si è invece trasformato, in un vero e proprio “credo”, fondato, per un verso, sulla rivendicazione apologetica della naturalità delle leggi economiche e, per un altro, sulla difesa dalle critiche, sostenendo che l’incompleta applicazione dei suoi principi era la ragione di tutti i limiti che ad esso venivano attribuiti.
Agli esiti negativi del liberismo potevano essere opposte due soluzioni: il socialismo e il fascismo. Il primo, considerato da Polanyi solo nella sua versione socialdemocratica, esprimeva la tendenza delle società industriali a superare il mercato autoregolato, subordinandolo consapevolmente ad una regolazione democratica. Il fascismo, viceversa, era il frutto della crisi dell’economia di mercato, resa evidente dalla grande depressione del 1929; esso sopperiva alla difficoltà delle classi conservatrici “arginando” i partiti socialisti e sacrificando l’equità sociale e le libertà democratiche.
Non è difficile capire perché il pensiero di Polanyi, dimenticato tra le due guerre, sia stato riscoperto negli ultimi anni per effetto del processo di globalizzazione delle economie nazionali. Nessuno, prima di Polanyi, nel XX secolo, ha analizzato il credo liberista dal punto di vista di tutte le sue implicazioni negative a livello nazionale ed a livello internazionale.
Tuttavia, il capitalismo attuale non può essere “costretto” ad accettare che i sistemi sociali moderni siano organizzati in modo da risultare più giusti e liberi attraverso l’adozione di sempre più estesi e generalizzati “meccanismi vincolistici”; se ciò accadesse sarebbe condizionata in modo eccessivo l’operatività delle singole basi produttive. Giustizia e libertà sono fini ultimi, il cui perseguimento può risultare compromesso se “confusi” con quelli politici del “qui ed ora” e connessi con la liberazione dal bisogno in modo “storicamente determinato”. Se si manca di separare i fini ultimi da quelli politici, si corre il rischio di subire gli esiti disfunzionali della mancata considerazione della loro inconciliabilità e di dimenticare che se si vogliono progressivamente perseguire, nella stabilità, i fini ultimi della libertà e della giustizia, occorre, non solo regolare il mercato, ma anche sancire la loro istituzionalizzazione pre-politica ed inaugurare un’attività politica finalizzata ad organizzare ed orientare il sistema sociale a consentirne la costante e crescente soddisfazione.

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