Crisi dell’eurozona: c’è l’eco del “Big Crash” del 1929?

8 Maggio 2013
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Gianfranco Sabattini

Sull’inserto del “Corriere” di domenica 21 aprile scorso sono comparsi due interessanti articoli di Federico Fubini e di Ian Kershaw: giornalista economico il primo, storico della Germania nazista il secondo. Fubini ricorda che in occasione della crisi mondiale del 1929 il mito dell’isolamento e dell’autosufficienza radicato nella cultura economica e politica dei Paesi economicamente avanzati ha portato i Paesi creditori a chiudere i propri mercati ai beni importati dai Paesi debitori. E’ accaduto così che questi ultimi, messi nell’impossibilità di procurarsi le risorse necessarie per saldare i propri debiti, siano stati costretti ad un’austerità, i cui esiti negativi si sono poi propagati ai Paesi creditori. Gli errori del passato, sulla scorta dell’esperienza vissuta con la Grande Depressione del 1929-1932, dovrebbero indurre a pensare che nessuna delle conseguenze delle decisioni politiche prese allora per uscire dalla crisi hanno la benché minima probabilità di verificarsi ancora. Oggi, con riferimento alla crisi dei Paesi dell’Unione europea, la Germania ed i suoi alleati economici restano fedeli all’eurozona e al mercato interno europeo, ma stentano ad accettare l’idea che la crisi attuale potrebbe essere superata, nell’interesse di tutti, se decidessero, pur attraverso un’ingegneria economico-finanziaria di loro invenzione, di rimettere in circolazione i loro surplus finanziari e fossero meno ossessionati dal perseguimento ad ogni costo della stabilità interna.
Eppure, osserva Fubini, di fronte ai comportamenti della Germania e dei suoi alleati, è possibile “avvertire certi echi del passato”; al momento del grande “crash”, gli USA e la Francia, vigendo ancora un sistema monetario internazionale ancorato all’oro (gold standard), accumulavano oro allo stesso ritmo col quale la Germania di Weimar “accumulava inflazione e disoccupazione”. Al presente, l’oro ha perso il suo ruolo originario e il regolamento dei debiti e dei crediti che nascono dai traffici internazionali avviene sulla base di monete, o di una moneta (l’euro), ancorate alla fiducia che ogni Paese ripone in ogni suo partner commerciale. Ciò non ostante, in modo non diverso da allora, i Paesi del Nord dell’eurozona hanno accumulato attivi commerciali da record, mentre molti Paesi del Sud dell’aera dell’euro hanno accumulato alti livelli di inflazione e di disoccupazione. E’ questo il motivo per cui tener ossessivamente fede all’obiettivo della stabilità interna (Germania e alleati), da un lato, e a quello di una rigida austerità (Italia ed altri Paesi del Sud dell’Europa), dall’altro, serve a ben poco; serve solo a denunciare il fallimento del quale sono stati, e continuano ad essere, protagonisti tutti i leader dei Paesi dell’Unione Europea. I leader dei Paesi in deficit hanno di continuo chiesto inutilmente ai Paesi in surplus che a loro fosse resa possibile un’austerità più sopportabile, mentre la Germania e i suoi alleati si sono di continuo mostrati inflessibili nel non accogliere la richiesta, sino a trovarsi anch’essi in procinto d’essere coinvolti nella crisi.
La singolarità della situazione dell’eurozona è espressa dal fatto che, dopo ottant’anni dalla Grande Depressione, i Paesi che la compongono si trovano ad essere al centro di un’altra crisi globale che concorre a rendere ancora più difficile la fuoriuscita dalla crisi interna alla loro area monetaria. La difficile situazione in cui versa l’Unione europea spinge Kershaw a chiedersi se sia possibile, soprattutto se la crisi dell’eurozona si aggravasse, il verificarsi di un’altra calamità europea simile a quella scatenatasi dopo il “Big Crash”. Sebbene sinora non si sia verificato alcun crollo delle istituzioni democratiche, né si siano manifestate derive autoritarie, la situazione potrebbe evolvere al peggio; al riguardo, per Kershaw, non mancano preoccupanti segni premonitori, quali l’inasprirsi delle tensioni sociali, l’intensificazione dei sentimenti nazionalisti ed il successo dei partiti che danno loro voce, l’affermazione crescente dei partiti conservatori e populisti. Tuttavia, per lo storico della Germania nazista, date le differenze tra la situazione attuale e quella di allora, è estremamente improbabile che l’Europa precipiti nel caos e nella tragedia degli anni Trenta. E’ vero; però, a parte la tragedia seguita agli anni Trenta, è possibile nutrire la paura che gli effetti ultimi possano essere quasi gli stessi.
Infatti, se dopo la Grande Depressione, i singoli Paesi si sono rinchiusi progressivamente all’interno dei loro confini politici, in una fase successiva hanno perseguito l’obiettivo dell’autosufficienza; a tal fine, per convertire i loro “surplus produttivi” in un “equilibrio di disponibilità”, i Paesi debitori hanno fatto ricorso ad una politica aggressiva finalizzata a conquistare uno “spazio vitale”, ovvero un’area economica considerata sufficiente a garantire la loro sopravvivenza. Quest’opzione, come tutti sanno, ha condotto alla seconda guerra mondiale, che secondo alcuni è stato l’unico modo per ridistribuire i surplus commerciali dei Paesi creditori, al prezzo di milioni di morti e di sofferenze costate “lacrime, sangue e sudore”. Sicuramente oggi non esiste la necessità di conquistare “spazi vitali”; l’esistenza di un’economia globale interconnessa con istituzioni mondiali preposte, anche se a volte solo formalmente, al suo governo escludono il pericolo di una terza guerra mondiale. Non si vorrebbe, però, che l’incapacità dei leader delle aree economiche integrate nel mercato mondiale, anziché fare morire la gente per il “sangue versato” in inutili guerre, la facessero morire d’inedia, per l’eccesso di “lacrime e di sudore” che un’ingiustificata accanita propensione alla stabilità ed all’austerità che costringe quella gente a versare, quando non decida anticipatamente di suicidarsi.

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