Dal patto della crostata a quello del babà

30 Aprile 2013
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Aldo Lobina

Chi, come Alfano, ha un senso alto della politica,  ha ben ragione di esecrare le parole di Dario Fo all’indirizzo di esponenti del suo partito in odore di ministero. Fra costoro c’è chi arriva perfino a ipotizzare la revoca del  prestigioso premio  “per l’oltraggio inferto all’essenza stessa del Nobel”.
Tira una brutta aria per i dissidenti. Dunque Fo stia bene attento a quello che dice, moderi le parole, il “suo malsano egocentrismo” potrebbe rimettere in discussione il Nobel.
Ricordi che a metà del secolo scorso Pasternak  fu costretto dal governo russo a rifiutare addirittura quel premio. Guai ai vinti, dunque!  Attento, Dario Fo, gli avvertimenti ti vengono da parte di chi detiene il potere in Italia, da parte chi ha dimostrato di poter fare quello che vuole, arriva dagli strenui difensori della politica.
Agli ex comici come Grillo, “che si è improvvisato politico” (Prestigiacomo), e a te, autore del Mistero Buffo, non è permesso svillaneggiare il “ministero buffo”.
Urtare la sensibilità dei governanti disturba i manovratori. Ma la satira fa il suo mestiere da tempo immemorabile ed ha una funzione sociale, democratica, perché  prendendo  di mira i politici e la politica essa arriva a “ castigare  ridendo mores” (è la stessa Corte di Cassazione che ne sottolinea l’utilità sociale,”un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene”), a denunciare ironicamente e sarcasticamente gli autori di certi fatti e misfatti  con lo scopo di promuovere  appunto un salutare cambiamento della società. Uno strumento duttile, che qualche volta assurge a vera arte, fino ad assecondare l’alta  considerazione   “di apportare considerevoli benefici all’umanità”, e meritare l’altissimo riconoscimento del Nobel.
Quello della satira è pertanto un genere che induce ad una certa aggressività. Qualche volta  tende  troppo la corda e può scadere perfino  nella diffamazione.  Allora è riprovevole. Ma perfino il turpiloquio, quando è eloquente espressione  di denuncia di comportamenti corrotti di “chierici e laici” della politica, è salutare. Lo praticavano fior di intellettuali: da Ludovico Ariosto, a Jacopone da Todi, da Guido Cavalcanti, quello del dolce stil novo, a Pascal .
Quando la satira scade nel turpiloquio, certo,  essa degenera, ma sono da preferire “mala carmina” contrarie ad una cattiva pratica di governo, ad un tradimento del mandato elettorale, piuttosto che il silenzio complice.  Per il resto essa è espressione di libertà di pensiero, molto temuto dai potenti, perché il messaggio è diretto, essenziale, privo di ipocrisia. L’esatto contrario dell’adulazione, esercizio di gran lunga più comune, accettato, gradito, talvolta richiesto espressamente dalla casta,  a beneficio della quale i pennivendoli di ogni ordine e grado, ventriloqui dei potenti, gareggiano per ricevere laute prebende.
Come non esecrare il patto, “il patto del babà”, napolitano,   della babka (vecchia) Repubblica, il “fabulazzo  osceno” , quello sì, che vede due forze,  presentatesi  come alternative , arroccarsi  insieme  per garantire non quello che avevano promesso rispettivamente agli elettori, ma se stesse e la continuità inconcludente di una esperienza negativa già vissuta. Dal patto della crostata al patto del babbà, stessa cucina: quando ci vuole ci vuole

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