Gianfranco Sabattini
Di recente, Giuliano Amato e Fabrizio Forquet hanno licenziato alle stampe un libro dal titolo pretenzioso: “Lezioni dalla crisi”. Dovrebbe essere una guida d’autore alla crisi economico-finanziaria in atto, raccontata con linguaggio semplice e divulgativo per fare capire le difficoltà che affollano al presente le preoccupazioni degli italiani. I concetti e gli acronimi ai quali da alcuni anni le orecchie dei cittadini hanno dovuto abituarsi, a volte senza comprenderne appieno il significato, con il linguaggio di Amato e Forquet, “perdono la loro sacralità astratta e scendono in terra”. Peccato che le analogie tratte dai “cartoni animati” di Gatto Silvestro e dalla fiaba di Pinocchio, più che fare ridere, conducano più facilmente gli italiani al limite della disperazione.
Le lezioni sembrano concepite ed impartite per ribadire cose che tutti già sanno (ipertrofico sviluppo dei mercati finanziari, raggiro dei risparmiatori attraverso i famosi “derivati”, effetti perversi della globalizzazione, crisi dell’economia reale, aumento della disoccupazione, disuguaglianze distributive, ecc.), non per preparare gli “scolari” ad accettare e ad apprezzare una proposta complessiva per rilanciare la crescita dell’Italia e superare la posizione di stallo attuale; ma quasi per giustificare “in toto” le misure di austerità fatte pesare sugli cittadini dal governo Monti nel silenzio più assoluto delle scelte politiche precedenti che hanno determinato quelle misure, per poi limitarsi a constatare che, ora, non esiste una “singole misura in grado di risolvere integralmente i nostri problemi” e che per uscire dalla crisi non si potrà pensare di fare tutto da soli, in quanto dovremo “dividerci il compito con l’Europa”; anche qui senza spiegare perché dovremmo “coinvolgere” il resto dell’Europa comunitaria.
Nel frattempo, secondo Amato e Furquet, l’Italia avrà bisogno di due fattori: aumentare il rendimento degli investimenti nell’economia reale e ridurre i profitti e le rendite finanziarie. Ma per andare verso quale futuro? I due “Maestri” non hanno dubbi; hanno la certezza che gli italiani ce la “faranno”, perché convinti del fatto che la storia ha sempre dimostrato che l’alternarsi delle categorie della crescita e del declino sono aperte oggi, come lo sono state nei secoli passati, all’innovazione; perciò, dipenderà da noi, italiani ed europei, organizzarci per innovare e difenderci dagli imprevisti del “nuovo” proveniente dall’esterno. Tutte le civiltà, concludono Amato e Forquet, sono cresciute grazie alla loro caratteristica di essere aperte all’innovazione e al mondo; per le civiltà vale quello che vale per il “sangue degli uomini”. Questo rimane sempre forte e vivo se alimentato da continuo rinnovamento e da diversità: potremo rinnovare il nostro successo nel futuro solo se sapremo cogliere le opportunità che l’innovazione e l’apertura al mondo ci potranno offrire. Tutto qui; non un esame retrospettivo delle scelte riconducibili alla responsabilità di chi ha governato l’Italia a partire dall’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso; non un cenno al perché di quelle scelte e non un rigo dedicato agli esiti negativi sulla capacità di tenuta del Paese seguiti a quelle stesse scelte.
Sino a prova del contrario, ad Amato (al governo da lui presieduto ed alle forze politiche e sociali che lo esprimevano) si devono le disposizioni normative in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico; ma anche le disposizioni legislative relative alla privatizzazione delle imprese pubbliche che sino agli anni Novanta avevano svolto nel Paese un ruolo di stabilizzazione sul piano economico e di integrazione su quello sociale. Fino al 1990, il sistema bancario e quello reale erano largamente influenzati dal settore pubblico: nel settore del credito, da una parte, esistevano gli istituti di diritto pubblico e, dall’altra, tre banche di interesse nazionale (le famose BIN) che facevano capo all’IRI e quindi indirettamente allo Stato italiano; nel settore reale, invece, il sistema delle partecipazioni statali aveva partecipato, sia pure in presenza di limiti crescenti, alla ricostruzione e ristrutturazione dell’economia nazionale, valutata necessarie per una sua crescente integrazione nel mercato internazionale.
Le leggi inaugurate negli anni Novanta del secolo scorso nel settore del credito ed in quello reale sono state adottate con l’intento di dare maggiore competitività all’economia italiana sui mercati internazionali in una visione europea e globale. In realtà, hanno rappresentato gli strumenti con cui è stato realizzato il ridimensionamento della presenza pubblica nell’intero sistema produttivo del Paese, avviato in concomitanza dell’istituzione del Mercato Unico Europeo (1992), il cui avvento è stato utilizzato per giustificare le scelte che venivano assunte, sostenendo che erano imposte dalla globalizzazione delle economie nazionali a livello mondiale; scelte che avrebbero portato il Paese a risolvere i suoi antichi problemi strutturali e a risanare la bassa produttività delle sue imprese.
In realtà, si è trattato di una giustificazione di comodo della partecipazione dell’Italia, da posizioni deboli e subalterne, ad un processo di definizione delle aree di influenza e di dominio a livello mondiale, con l’area europea “egemonizzata” dall’asse franco-tedesco. Una partecipazione che, in nome di un improbabile progresso e di un liberismo sempre più selvaggio, ha aperto il “sistema-Italia” all’incontro-scontro con l’economia mondiale, che ha causato un numero crescente di persone senza occupazione ed un aumento delle diseguaglianze economico-sociali nel nome di un’economia di mercato senza regole.
Se ora si considera lo stato in cui versa l’economia italiana e si riflette sulla “rapacità” dell’imprenditorialità italiana più rappresentativa nel processo di privatizzazione del settore pubblico che avrebbe dovuto rimuovere i tradizionali motivi di debolezza dell’economia nazionale, si può dire che, insistendo nell’analogia introdotta dagli autori di “Lezioni dalla crisi”, l’indebolimento del “sangue degli imprenditori italiani”, causato da un suo protratto mancato rinnovamento nel tempo, lascia poche speranze che l’Italia possa rimuovere, almeno nel breve periodo, le cause del suo declino, che vanno ben al di là della crisi che tutti i Paesi integrati nell’economia mondiale stanno subendo dal 2008.
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