Gianni Fresu
Dopo le elezioni, c’è un rimescolamento di carte a sinistra. SEL si appresta a concludere il suo percorso di confluenza nel PD. In realtà, la collocazione di questo partito già da qualche tempo era organicamente interna al PD, configurandosi come l’ala sinistra di quel partito. La prassi politicista e di piccolo cabotaggio degli amministratori di SEL in molte situazioni (vedi anche Zedda a Cagliari e la rappresentanza in Cosniglio regionale) collocano questa formazione nell’alveo, alquanto degradato, del PD.
La sinistra d’ispirazione comunista è ridotta al lumicino, senza alcuna incidenza nella realtà, la qualcosa è la negazione della stessa identità comunista che o è “un movimento che trasforma lo stato di cose presente” o non è.
Quali possibilità di ripresa? Quali vie intraprendere? C’è ancora una prospettiva comunista? A questi quesiti prova a dare qualche risposta Gianni Fresu, già esponente di primo piano di Rifondazione comunista in Sardegna e valente storico dell’Ateneo cagliaritano.
Dopo l’ennesimo fallimento elettorale, è giunto il momento di pensare al dopo, agli elementi da cui ripartire per far uscire i comunisti dalla condizione di marginalità, anzi, invisibilità politica e sociale in cui si sono cacciati. Per prima cosa, penso si debbano fare i conti con gli errori fatti per evitare di ripeterli e imprimere una svolta rispetto al passato.
Nella loro storia i comunisti hanno saputo incidere sulla realtà, e uscire dal ghetto in cui le forze sociali conservatrici li avrebbero voluti relegare, quando hanno avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere i propri limiti, attraverso una severa, non rituale, autocritica. E’ stato così con il Congresso di Lione, che mise al bando settarismi e astrattismi ideologici con l’ambizione di costruire un partito in grado di analizzare la propria realtà nazionale e aderirvi plasticamente. E accaduto ancora nel fatidico biennio 1934-35, quando il movimento comunista ebbe il coraggio di sottoporre a severa critica la fallimentare tattica del periodo 1928-33, che recava con sé gravi responsabilità sull’avvento del nazismo in Germania e sulla condizione di isolamento vissuto dai comunisti nei diversi Paesi europei. Senza il radicale cambio di rotta del 1935, al VII Congresso dell’Internazionale, difficilmente i comunisti avrebbero potuto assumere il ruolo poi svolto nella guerra al nazifascismo.
Senza voler scomodare esempi storici ingombranti come questi, o altri che potremmo citare, tuttavia, ritengo oggi carente proprio quella capacità di guardarsi dentro e comprendere una realtà circostante sempre più distante da noi, dalla quale siamo irrimediabilmente respinti. Nonostante la nostra irrilevanza, conclamata, vedo ancora troppi compagni ripiegati su una valutazione meramente difensiva, più impegnata a fare le pulci alle organizzazioni collocate alla nostra destra che a realizzare un proprio bilancio. Smettiamola di parlare del PD, pensiamo a cosa vogliamo fare noi, anteporre la politica delle alleanze (PD sì, PD no) è un modo per mascherare la mancanza di una nostra soggettività politica. Per il PCI del dopoguerra la scelta di collaborare o rompere con le altre forze non era la premessa, ma una semplice eventualità tattica da prendere in considerazione a seconda delle situazioni e soprattutto dell’oggetto della collaborazione, o della rottura, in sé.
Chi trasforma questo rovello storico, in positivo o in negativo, ne rimane irrimediabilmente prigioniero. A mio avviso, esso non è la causa della nostra debolezza, bensì, l’effetto. Le cause del problema vanno ricercate altrove: la nostra subalternità culturale non solo verso l’attuale quadro politico, ma anche, e soprattutto, nei confronti di una più complessiva visione del mondo, di una Weltanschauung, che ci limitiamo a subire e ovviamente non siamo in grado di aggredire. Senza una nostra visione del mondo, che contempli un ordine diverso dall’attuale, la funzione dei comunisti perde di significato e senso storico, siamo destinati a essere fagocitati dai limiti storici delle politiche socialdemocratiche, anche se queste sono profondamente in crisi.
Per essere ancora più chiari, a mio avviso, il nostro problema non è l’essere stati l’ala sinistra di un progetto conservatore, la teoria del “socialfascismo” non mi ha mai suscitato alcuna simpatia. Il difetto semmai è all’origine: è mancata la parte rifondativa della nostra sfida. Abbiamo saputo riprodurre tutti i peggiori difetti dell’ultimo PCI, senza però averne il peso, non siamo stati capaci di costruire una nostra visione coerente e organica del mondo. Abbiamo lasciato il marxismo a illanguidire in soffitta per andare ecletticamente al traino delle ultime novità “radicali”(Revelli, Toni Negri, pensiero No-global, disobbedienza, nonviolenza, ecc. ecc) in un continuo pellegrinaggio ideologico fatto di svolte e controsvolte talmente volubili, e sovente contraddittorie, da averci lasciato, in ultima analisi, disarmati, proprio in una fase che doveva essere nostra: quella della crisi organica del capitalismo, segnata dal discredito e dalla disapprovazione popolare per le politiche liberiste.
Diciamolo serenamente, abbiamo fallito nella premessa del nostro progetto: non abbiamo rifondato né una teoria, né una prassi comunista. Ripartire, con onestà, significa fare i conti con questo problema, come affermava Marx, gli uomini prendono coscienza del proprio essere sociale, dunque fanno scelte di campo, sul terreno delle ideologie. Attualmente quale è la nostra?
Non caschiamo nella “falsa coscienza” della filosofia imperante, secondo cui le ideologie sono superate, è una menzogna, il liberalismo ha ancora oggi una sua ideologia, e le politiche che stiamo subendo in questi anni ne sono una tragica conferma, la stessa anti-ideologia dei movimenti antipartitici alla Grillo è, in realtà, un’ideologia in sé, costruita per negazione. Noi, non solo non abbiamo curato la costruzione di una nostra nuova visione del mondo all’altezza della sfida odierna, ci siamo sbarazzati di quella che avevamo ereditato.
Da qui bisogna ripartire, per questo ritengo necessario mettere al bando i comitati e le bizzarrie elettorali tanto in voga nell’ultimo decennio per avviare un lavoro di lungo periodo. L’ho già detto e scritto in passato, lo ribadisco, scusandomi per la riproposizione di un concetto già espresso: esistono al di fuori di noi tanti soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica ma potenzialmente interessati a un progetto di classe. Sono tanti gli italiani che non trovano seducente né la permanente vocazione al compromesso privo di riferimenti sociali del PD, né le allucinazioni carismatiche di una sinistra senza aggettivi, edificata per cooptazione attorno alle narrazioni immaginifiche del suo leader.
Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare al nostro interno, tanto meno nella prospettiva della “Rivoluzione civile”, un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione.
Occorre andare oltre i nostri partiti, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza, un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato.
Non si può continuare a militare per mero senso di colpa o per un malinteso “senso del dovere”, nell’accezione più cattolica dell’espressione. Non può più bastare la militanza per inerzia, lo sforzo individuale, spesso ingrato e faticosissimo di dirigenti e militanti del PRC e del PdCI, occorre raccogliere la sfida di una fase ricca di incognite e insieme potenzialità come questa e, da comunisti, saper rilanciare, abbandonando “boria di partito” e posizioni consolidate. Serve, con umiltà e apertura, un approccio disinteressato verso tutti quei compagni attualmente non attratti dalle nostre organizzazioni.
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