Milena Fadda
In questi giorni, le televisioni nazionali enfatizzano la notizia dell’invio di apparati d’urgenza nella provincia campana di Caserta, a fronte dell’eccidio avvenuto a Castelvolturno il diciotto settembre scorso: ben 400 persone impiegate tra finanzieri, polizia e carabinieri, per il ripristino dell’ordine sociale. Ma il ministero della Difesa, in allarme, già preannuncia l’intenzione di aumento del contingente delle forze armate per un ammontare di massimo 4000 unità. Misure-surrogato, insufficienti ad arginare la situazione di assenza dello stato di diritto, sia per i relativi costi che per la blanda funzione di deterrente a queste destinata.
A Caserta come a Milano, in cui migliaia di manifestanti hanno accordato la propria solidarietà ai parenti del giovane massacrato a colpi di bastone da padre e figlio gestori di un bar in zona Stazione Centrale, costretti, a loro dire, a una giustizia sommaria e motu proprio. All’omicidio di Abdul, italiano del Burkina Faso, con ogni probabilità non verrà applicata l’aggravante dello sfondo razziale.
L’orribile delitto si compiva il 14 settembre, il giorno prima dell’intervento del premier Berlusconi alla trasmissione televisiva Porta a Porta, in cui il capo del Governo, stigmatizzando lo stato di degrado architettonico in cui versano alcune periferie italiane si diffondeva in un illuminante paragone con le città africane.
Il tutto a un anno (era il novembre 2007) dalla decisione maturata da Regione Lombardia e Comune di Milano, di revocare l’assistenza medica di base e l’iscrizione agli asili nido ai figli di immigrati in attesa di regolarizzazione, con cui le amministrazioni in oggetto si assicuravano un ampio raggio di assenso in vista dell’imminente crisi di governo, nell’intenzione di operare un restringimento della spesa pubblica (a fronte dei 120 mila permessi di soggiorno in via di rinnovo in Lombardia nel 2007) destinata a sanità e assistenza. Il tutto in aperto contrasto con il Testo Unico sull’immigrazione del 1998 e con le normative internazionali poste a garanzia degli stessi diritti alla salute e all’istruzione.
Nella strategia di delegare a regioni e municipalità la gestione e l’applicazione di quella serie di diritti civili meglio noti sotto la dicitura di welfare, il governo sta scontando l’opportunistica costruzione dell’unanimità di consenso, con la deviata percezione, ormai irrefrenabile, che la maggioranza degli italiani ha maturato dello straniero quale nemico pubblico numero uno, portatore di disordine sociale, sporcizia, malattia, deprezzamento e conseguente svalutazione del lavoro salariale.
Nel frattempo, un’altra emergenza si agita sull’orizzonte sociale italiano, l’iter amministrativo necessario al rinnovo dei permessi dei figli di immigrati, un esercito che annovera tra le sue fila, solo per i minorenni, ben 600.000 persone. Come noto, l’Italia aderisce all’applicazione del principio dello jus sanguinis. Non basta essere residenti dalla nascita, con regolare iscrizione nel passaporto dei propri genitori: la richiesta di cittadinanza va inoltrata al compimento della maggiore età e finalizzata entro lo stesso anno. Ma qualora non si risieda in Italia dalla nascita, l’agognata cittadinanza si conquista dopo aver esperito un periodo di residenza continuativa non inferiore a dieci anni e il tutto a fronte della considerevole trafila burocratica necessaria all’ottenimento dei permessi di soggiorno. Permessi che variano in durata, a seconda dello status socio-economico, oltre che anagrafico del richiedente. Dal canonico anno richiedibile per motivi di studio, al tempo indeterminato sancito con l’entrata in vigore dal gennaio 2007 del permesso di soggiorno UE, esigibile al compimento del quinto anno di permesso e sottoposto a valutazione reddituale. Reddito che deve essere dichiarato e in ogni caso superiore all’importo dell’assegno sociale, calcolato per la somma di 5.142,67 euro annui.
Situazione su cui gravano le tempistiche necessarie all’espletamento amministrativo delle pratiche di rinnovo, che spesso si protraggono più a lungo della stessa durata del permesso, la cui mancata presentazione entro i termini stabiliti in sede di regolamento comunale determina il quadro di riferimento della irregolarità di residenza.
Il governo, nel frattempo si batte per arginare il casus belli con la quasi totale delegazione di responsabilità alle amministrazioni comunali, consapevoli del fatto che chi vuole rimanere in Italia dovrà sottostare alle leggi del caporalato, che prevedono il rituale iniziatico del lavoro nero, per un salario che non supera i due euro l’ora; mentre lo spauracchio dell’emergenza è il mezzo utilizzato per il fine ultimo dell’appalto sicuro: con il costo di ottanta euro “per unità” che i CPT dichiarano di sostenere su base giornaliera. Per dirla con Chomsky, il governo italiano non sembra in grado di proporre un’alternativa all’applicazione del racial profiling, che si prospetta nelle nuove norme a modifica del TU sull’Immigrazione, con il restringimento del diritto all’alloggio sociale per gli stranieri, di cui si prolunga il requisito di residenza (dai due anni del 1998 ai dieci del 2008, abbassati a cinque in caso di residenza continuativa nella stessa regione).
Bruxelles, dopo il palleggio Commissione-Parlamento sulla questione rom e la discriminazione derivante dall’identificazione biometrica da effettuarsi su base etnica, ha richiamato all’ordine il ministero dell’Interno per la modifica del decreto sicurezza negli articoli dedicati all’espulsione di cittadini comunitari.
Ma Bruxelles non può molto di fronte a una percezione distorta di sicurezza sociale, che si muove strisciante nel consenso strappato alla popolazione, in nome del diritto inalienabile a quel benessere individuale, in relazione al quale l’uguaglianza, anziché come un bene, viene percepita come minaccia.
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