Umberto Allegretti
La crisi odierna del nostro paese è spiccatamente multiforme e complessiva. Alla dimensione economica, che è propria del contesto globale e specialmente dell’Europa, ma che manifesta da noi caratteri particolarmente gravi, si somma, a differenza che in altri paesi, il profondo dissesto del sistema politico e la messa in questione stessa della Costituzione e, in misura che occorre mettere in risalto, la crisi di quello che possiamo chiamare il “quotidiano”, che è insieme malfunzionamento dell’amministrazione e della giustizia, della società economica, della cultura e della società civile. Questi, in sintesi, i punti al centro dell’analisi di Umberto Allegretti, oggetto di un saggio che comparirà su “Democrazia e diritto”. In esso l’autorevole giuspubblicista e politologo delinea un quadro articolato, mirato agli elementi strutturali e di lungo e medio periodo più che non a quelli direttamente legati al contesto temporalmente così incidente della crisi economica mondiale e della contingenza elettorale e parlamentare (dalla quale tuttavia non si può prescindere, anzi ogni comportamento all’indomani delle elezioni del 24 febbraio 2013 dovrebbe tenerne conto).
C’è un bandolo per l’uscita dalla crisi? Ecco il quesito. La risposta di Umberto Allegretti è nella parte conclusiva della sua un’analisi, che noi pubblichiamo di seguito (per una lettura integrale dell’interessante saggio si rinvia al numero 1/2013 di “Democrazia e diritto”).
I programmi politici della campagna elettorale 2013 e i suoi risultati vanno misurati certo sui problemi presenti, anche nella consapevolezza delle loro radici nei comportamenti precedenti delle forze politiche, ma non devono esser visti solo con l’occhio alle vicende delle legislature più recenti e alle politiche fondate su termini temporali limitati, senza la consapevolezza della profondità storica e la considerazione adeguata dei nessi tra le varie questioni. Del resto sembra attualmente questo un vizio dell’intera politica europea.
Invece tener conto della profondità storica di tutte le nostre crisi sembra necessario per prenderne le misure in maniera adeguata e per conformarvi lo sguardo lungo – nel passato e nel futuro – del quale occorre usare. La crisi italiana, e il berlusconismo che ne costituisce l’acme recente, non possono essere attendibilmente considerati (va ripetuto) una parentesi destinata a un automatico o facile superamento da parte di maggioranze differenti da quella di destra, poiché occorre combattere vizi compaginati, e non da ora, con la società italiana, nei suoi aspetti più circostanziati e più minuti.
Quando in un fenomeno si intrecciano elementi tanto complessi è certo difficile affrontarli afferrando il capo di un filo nella speranza che possa produrre la rimessa in asse di tutto il sistema. I circoli viziosi sono i più complicati da risolvere e vanno affrontati in punti prescelti senza però trascurare l’intersezione fra tutti i fili e quindi in realtà confrontandosi con ogni problema implicato.
Forse è possibile indicare un elemento generale comune alle maggiori deficienze, e che sostiene tutte le osservazioni fin qui fatte. Così, convinti che il particolarismo individualistico sta al fondo di ogni fenomeno italiano, come diceva Leopardi quando rilevava che “lo spirito pubblicoin Italia è tale, che […] lascia a ciascuno quasi intera la libertà di condursi […] come gli aggrada” , indicheremmo l’antidoto di cui fornirsi per le operazioni politiche e civili che ci si sente di compiere in qualcosa che, a somiglianza dell’idea tedesca di patriottismo costituzionale, vorremmo chiamare “credo repubblicano”. Un credo legato allo spirito di fondo della Costituzione che è a sua volta la regola di fondo della vita della Repubblica, spirito che consiste nella combinazione, espressa nell’art. 2, tra i “diritti inviolabili” di tutte le persone e i loro “doveri inderogabili di solidarietà”, e che rappresenta l’accantonamento di quello scetticismo, uno “scetticismo repubblicano” finora diffuso in molti strati della società.
Si tratta di qualcosa di cui, come del resto sotto il nome di virtù era indicata da Montesquieu, nessuna società può fare a meno (c’era un credo nella società monarchica, c’era un credo, coattivo in questo caso, nel regime fascista, perché non ci sarebbe nella società democratica?), che si traduce in una “fedeltà” che deve muovere a comportamenti pratici precisi, ricavati dai valori ispiratori della Repubblica. Una fedeltà che dall’art. 54, epitome della parte prima della Costituzione che sancisce i diritti e doveri dei cittadini, è nominativamente richiesta non solo – e in questo caso nella forma accentuata di “disciplina ed onore”, da sostenere, nella linea dello strumento giuridico, con rigorosi dispositivi relativi al conflitto di interessi – a tutti i titolari di funzioni pubbliche, ma a “tutti i cittadini”. E che non può consistere nel mero rispetto della legalità e dei diritti altrui, ma deve tradursi attivamente in libera mobilitazione personale per il bene comune e l’interesse generale. Se quel rispetto è spesso invocato, sembrano invece trascurati i suoi nessi con i doversi positivi.
Troppo poco questa fedeltà, surclassata da forme di scetticismo costituzionale, è stata presente nella storia repubblicana e forse è questo che le è mancato e spiega i tradimenti. Sarebbe il caso che intellettuali e pratici ne riscoprissero il valore e a esso richiamassero se stessi e tutti i cittadini.
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