Carlo Dore jr.
La notizia è di quelle destinate a terremotare il sistema politico di qualunque democrazia occidentale: Sergio Di Gregorio – il rubicondo senatore napoletano, già presidente della Commissione difesa di Palazzo Madama e leader dell’associazione “Italiani nel Mondo” – confessa di avere ricevuto, nel non lontano 2006, tre milioni di euro per transitare da IDV al PDL, facendo così mancare il suo appoggio al traballante esecutivo allora presieduto da Romano Prodi. Delegato al pagamento: Walter Lavatola, insostituibile factotum tra Arcore e Palazzo Grazioli e infaticabile globe trotter verso l’oceano di Santa Lucia; committente, per forza di cose, Silvio Berlusconi, che nella forza persuasiva del suo immenso potere economico ha da sempre individuato lo strumento privilegiato di moltiplicazione dei propri consensi.
Miliardari e faccendieri, banconote che girano e senatori a la carte, la magistratura che indaga sulla base di una confessione: sarebbe legittimo aspettarsi una massa di gente indignata che invade le piazze invocando giustizia e legalità, sarebbe legittimo aspettarsi una presa di distanza da parte dei vari esponenti del PDL rispetto alle logiche padronali del loro capo politico, sarebbe legittimo attendersi una netta mobilitazione, da parte di tutte le istituzioni, a presidio dell’autonomia degli inquirenti.
Sarebbe legittimo aspettarsi un sussulto di etica: ovunque, ma non qui, non da noi. Non in questa Italia, all’indomani di un voto che ha confermato la scarsa qualità democratica di un Paese soggiogato dal culto dell’Uomo forte; non in questa Italia, in cui le grandi questioni della lotta alla corruzione e della moralità politica sono violentemente oscurate dalle gag sul rimborso dell’Imu e del reddito di cittadinanza; non in questa Italia, dove la comprensione dei principi costituzionali è diventata un lusso per pochi, dove i richiami alla difesa della legalità svaniscono in un florilegio di battute da osteria.
La piazza si schiera, ma dalla parte sbagliata: l’arroganza del corruttore viene accolta con un misto di applausi e grasse risate. La piazza sghignazza e tuona: non vogliamo serietà, non vogliamo legalità, vogliamo i colonnelli contro il cancro della magistratura bolscevica.
L’etica è fuggita, vogliamo i colonnelli.
Si mobilita l’ANM, offesa e annoiata dall’ennesima batteria di insulti sparati via etere dagli oplites del Cavaliere; si mobilitano le Associazioni, da sempre in prima linea per riaffermare l’attualità dei principi della Carta fondamentale; si mobilitano i militanti del centro-sinistra, ostili a qualunque forma di compromesso con quanti basano il consenso politico sulle varie forme di delegazione di pagamento, degradando il dibattito parlamentare a squallido baratto da fiera domenicale.
Ci mobilitiamo tutti, come nel 2001, come nel 2009, come sempre in questi vent’anni. Ci mobilitiamo tutti, ma la nostra disperata richiesta di etica risuona sempre più flebile nella piazza occupata militarmente dalle truppe di questo o di quell’uomo forte, avide di proposte ad effetto, di slogan urlati a pieni polmoni, di barzellette fuori posto. E inizia ad insinuarsi tra di noi, gelida ed incalzante, l’ombra di un sospetto: che l’etica abbia definitivamente abbandonato questo povero paese privo di qualità democratica; che per l’etica non ci sia più posto nella piazza che vuole i colonnelli.
(Articolo pubblicato su cagliari.globalist.it )
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