Quale governo? Il migliore possibile

7 Marzo 2013
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Aldo Lobina

Tra le tante ipotesi che il Capo dello Stato dovrà vagliare per favorire la formazione di un nuovo governo ce n’è una, che rimbalza di giornale in giornale, di televisione in televisione e che merita una attenta discussione. Quella di un governo tecnico, altrimenti definito governo del Presidente (come se gli altri fossero figli di nessuno o di forze politiche comunque inabili) sembra essere ritenuta una via d’uscita obbligata quando il responso delle urne o la situazione politica venutasi a creare non rende possibile la costituzione di una maggioranza stabile a garanzia della governabilità, cioè della possibilità di governo della Repubblica. Che sarebbe messa a rischio per la mancanza di una maggioranza politica precostituita.
La prima considerazione da fare è questa: se è vero che il risultato elettorale  è  il frutto della libera determinazione dei cittadini in un dato momento storico, l’esercizio di un diritto – dovere fondamentale per i membri di una comunità, è anche vero che la sua chiave di lettura formale è scritta, è contenuta, nella Legge elettorale, che non solo determina l’efficacia di ciascun voto assegnato dall’elettore (arrivando perfino ad annullare gli effetti, quando si introducano sbarramenti percentuali, al di sotto dei quali a quel dato voto non corrisponde la rappresentanza indicata) ma ne stabilisce anche “in entrata” l’orientamento attraverso la scelta del sistema elettorale  e delle varie possibilità  di stampo maggioritario o proporzionale.
Una chiave di lettura formale diversa si traduce in risultati diversi. Dunque la possibilità di gestire anche l’ultimo nostro risultato elettorale fa discendere la governabilità non solo dal voto, ma anche dal contesto normativo. Il quale, per come è strutturato, incide anche sulla qualità degli eletti. Perché se ad essere eletto è Tizio, Agata , Sempronio, Lucilio e non Cecilia,  Caio, Simplicio, Trota, questo fatto non dipende tanto da me o da te, ma dalla dirigenza di questo o quel partito che può predeterminare il risultato.
Chi non ha voluto finora cambiare la Legge elettorale ora ne paga lo scotto e lo fa pagare soprattutto al Paese. Gli stessi premi di maggioranza guadagnati da una coalizione che ha superato un’altra dello 0,.. sono una abnormità. Perché i deputati del Parlamento non sono numeri, non servono solo per far numero. Non possono essere arruolati da liste elettorali in cui è la posizione in lista che ti garantisce se verrai eletto o non verrai eletto. Se verrai gratificato da un premio che diventa un castigo per uno più valido di te, ma nello schieramento “giusto”.  I deputati dovrebbero rappresentare chi li conosce e li sceglie. Chi si può rivolgere loro anche fisicamente in  apposite sedi in ogni momento dello svolgimento del mandato. Cosa che avviene per esempio nel Regno Unito, luogo di un’antica democrazia, che vede i deputati eletti dedicare parte della loro attività stando a stretto contatto col cittadino, con le realtà sociali ed economiche, che suggeriscono soluzioni e danno importanti suggerimenti per essere rappresentate al meglio. Niente di tutto questo in Italia, dove non hai un deputato di riferimento. Ce l’hai a livello regionale (e non completamente per via dei listini) o comunale, ma non nel Parlamento. Così che ogni parlamentare oramai si sente assolutamente slegato dal popolo, vive dentro una realtà virtuale, privilegiata, immune dalle angherie che prescrive agli altri. Di cui non condivide, se non a parole, e a distanza, difficoltà e  speranze. Realtà virtuale che lo trasforma più in un numero votante, a rischio di compratori interessati, oggetto cioè di vile mercimonio, favorito appunto dalla mancanza di un rapporto diretto di rappresentanza.
Un governo tecnico non sarebbe un male se venisse sostenuto da una maggioranza di parlamentari qualificati, certificati dagli elettori (le primarie possono essere utili allo scopo), capace di farlo lavorare ad un programma condiviso, purché la costituzione di quell’esecutivo contempli anche l’esistenza di una minoranza. Guai a pensare ad un governo tecnico frutto della logica del “tutti dentro”. Sarebbe finita la democrazia, che si alimenta della dialettica di forze che governano e minoranze che controllano.
Non sono di principio contrario all’idea di un esecutivo tecnico, costituito da competenze diverse nei molteplici ambiti dell’azione politica. Esso rientra nelle possibilità previste dalla nostra Costituzione. Il potere esecutivo infatti dovrebbe dar seguito alle leggi varate dal Parlamento, senza sostituirsi ad esso con l’abuso dei decreti legge, che obbligano le rappresentanze parlamentari a ruoli ancillari, lontani dalle prerogative costituzionali più appropriate. Sono però personalmente contrario alla “proroga” di Monti, che è entrato in una equazione di tipo A+B+C +X* = M,  prima come risultante a destra e poi, traendo a sé Casini + X (leggi Fini), sempre a destra naturalmente, ha reso impossibile dimostrarne la soluzione. Lo sa anche Bersani, che ne ha fatto le spese.
Recentemente siamo approdati infatti ad una sorta di governo tecnico, in cui però la “tecnica” è stata usata per giustificare l’ensemble ABCf (Alfano, Bersani, Casini e la buonanima di Fini), cioè come alibi per salvaguardare i conti dello Stato, ma addossandoli ai soliti noti, alle classi sociali medio-basse. Un governo definito impropriamente come governo del Presidente per non far torto a nessuno dei partecipanti, accomunati dallo stesso disegno in obbedienza (per alcuni obtorto collo) a Bce, UE, Merkel-Sarkosy, stampa e mercati. Una sorta di governissimo tecnico dai risvolti che conosciamo. Che è stato liberato dalle opposizioni grazie a scandali veri o presunti di Lega e IDV, orchestrati debitamente. Diversamente a quanto accaduto  per attenuare  le vicende relative al   “Monte dei Pascoli”, pare, non proprio edificanti per i dirigenti del PD.
Ci serve soprattutto oggi un governo  di persone competenti, non è obbligatorio che siano deputati o senatori. L’importante è che si attengano alla loro funzione esecutiva, che obbediscano al Parlamento, che li sostiene e in fondo li crea. Il Capo dello Stato infatti non crea nulla. Valuta, ma ha come scelta obbligata quella di verificare la possibilità di una maggioranza, quella possibile, che si esprima con un governo possibile, il migliore possibile, tecnico o meno non importa. Ma il migliore possibile.
Dunque per realizzare la governabilità condizione necessaria è  un Parlamento che sappia creare  i presupposti per dare un governo al Paese, a partire dalla riforma delle riforme: quella fondata sul principio che la politica è davvero la forma più alta di carità e perciò stesso pretende prima che di governare di essere governata. Subordinata ad una legge elettorale in cui traspaia la volontà di servire senza arricchimenti personali o di partito e dal sentimento che la governabilità di un Paese dipende prima di tutto dalla fiducia dei cittadini verso i loro rappresentanti. Se chi ci rappresenta non ci rappresenta, se rappresenta altri interessi, se soddisfa gli egoismi personali o di gruppo, assistito da un governo “forte” (coi deboli), quella  nave  (leggi nazione) batte bandiera pirata, avendo gettato a mare la Costituzione insieme alla bandiera della Repubblica.
Siamo ad un bivio. Se il Parlamento appena eletto non saprà imboccare subito la strada della riforma elettorale e della sobrietà della militanza politica e contemporaneamente tutte quelle necessarie nei confronti dei giovani e del lavoro (comprese le pensioni) fallirà inesorabilmente la sua mission, messa in risalto da un risultato elettorale che ha premiato queste istanze, punendo giustamente l’equazione A+B+C +X* = M.
*Il valore della variabile X è prossimo allo 0. Chi ha trovato il valore dell’incognita l’ha sostituito con f(ini, una f piccola, ini ini), incognito elettoralmente parlando, non pervenuto.

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