Gianfranco Sabattini
Ricordate? Qualche settimana fà, abbiamo pubblicato due intriganti interventi di Francesco Cocco sui temi dell’invidia e dell’indignazione. Ora, sulla questione interviene, da un angolo visuale parzialmente diverso, da valente economista quale è, Gianfranco Sabattini, che, con alcune interessanti notazioni, arricchisce la riflessione su questo tema rilevante nella vita di ciascuno e nelle dinamiche sociali. Egli pone e risponde al quesito: c’è nella società attuale anche una scusabile e positiva ragione dell’invidia?
Credo che il “vivere insieme” implichi la condivisione di una società “bene ordinata e giusta” e condivido l’indignazione di chi, soprattutto nella fase attuale dei sistemi capitalistici, subisce gli esiti di un’azione di governo che, anziché essere protesa verso la realizzazione di quel tipo di società, ne avverte il suo allontanarsi.
Tuttavia, non individuo le “forze”, che dovrebbero motivare la costante propensione di tutti i componenti di un qualsiasi sistema sociale a realizzare una società bene ordinata e giusta, nella “lotta di classe” e nell’”operaismo” che la dovrebbe alimentare. Non credo nella lotta di classe perché accettarla significa riconoscere come “motore” dell’evoluzione delle regole del “vivere insieme” verso la società bene ordinata la presenza all’interno del corpo sociale di una costante contrapposizione tra “ricchi” e “poveri”; non credo nell’operaismo perché una sola classe non può essere identificata come portatrice degli interessi generali dell’intero sistema sociale. Accettare la prima ed il secondo, significa anche, tra l’altro, legittimare l’attuale sistema di welfare State, “pannicello caldo” con cui si tenta di rimediare alle disuguaglianze sociali attraverso meccanismi ridistributivi caritatevoli; questi, anziché operare sulla base di un’equità distributiva posta come condizione pre-politica di una società bene ordinata, legittimano una giustizia distributiva ottenuta come conseguenza ex-post di una conflittualità sociale, le cui conseguenze disgreganti sul piano delle relazioni interindividuali sono coperte sotto il “velo pietoso” delle rivendicazioni sociali.
In una società bene ordinata non vi è ragione dell’esistenza di ricchi e di poveri, né vi è ragione di gravare un qualche “gruppo sociale” dell’immane compito di lottare per soddisfare permanentemente l’interesse generale. Una società bene ordinata ed organizzata non ha bisogno della lotta di classe, né al suo interno l’azione di governo può originare motivi, comunemente intesi, di invidia e di indignazione presso uno qualsiasi dei suoi componenti nei confronti di chicchessia.
La creazione di una società bene ordinata e giusta, quale sarebbe una società costruita sulla base di una cittadinanza espansa e fondata sulla condivisione pre-politica dell’equità distributiva, costituisce anche la pre-condizione per la costituzione e la conservazione di stabili strutture politiche per la soddisfazione ottimale dell’interesse generale e degli interessi individuali; a tal fine, queste strutture devono essere credibili e godere della fiducia dei cittadini. Credibilità e fiducia delle strutture politiche costituiscono una risorsa particolare indicata, nella moderna letteratura economica, con l’espressione di “capitale sociale”, il quale viene considerato un “prodotto di esportazione” della sociologia verso la teoria politica e verso la teoria economica, su cui fondare l’organizzazione e la conservazione di una società bene ordinata e giusta.
A presidio di questo tipo di società, il capitale sociale annovera tra i suoi strumenti la motivazione dell’invidia; poiché anche la società bene ordinata è destinata ad evolvere ed a subire gli esiti non sempre positivi della mobilità sociale, l’invidia è il sentimento che motiva i soggetti ad impegnarsi per rimediare a tali esiti e per conservare la loro posizione sociale relativa: “Quando l’invidia – osserva J.Rawls (il teorico della società bene ordinata e giusta) – è una reazione alla perdita del rispetto di sé, in circostanze in cui sarebbe irragionevole aspettarsi che qualcuno si sentisse in modo diverso, affermo che essa è scusabile”. Il capitale sociale annovera nel “proprio arsenale”, a tutela della società bene ordinata, anche un altro strumento: la credibilità delle strutture politiche. Le strutture politiche credibili motivano i cittadini alla cooperazione ed alla partecipazione alle decisioni collettive più di quanto farebbero altrimenti. Se le strutture politiche non sono credibili, come avviene in alcuni Paesi del capitalismo avanzato, tra i quali l’Italia, i cittadini si “allontanano dalla politica”, compromettendo la qualità delle stesse strutture che la esercitano.
In Italia, ad esempio, l’allontanamento dalla politica dei cittadini è dipeso da fatto che chi, negli ultimi vent’anni, ha dominato la scena politica ha confuso l’esercizio del potere economico con quello del potere politico. Tra le due forme di potere vi è una profonda differenza, nel senso che l’esercizio del potere economico comporta la possibilità per chi lo esercita di offrire discrezionalmente ricompense o sanzioni; i ricchi hanno più potere dei poveri, perché i ricchi possono elargire ai poveri ciò che i poveri vogliono, per cui questi tendono a fare quello che i ricchi vogliono. L’esercizio del potere politico, per contro, è di natura “deontica”, nel senso che coloro che lo esercitano non possono deontologicamente comportarsi discrezionalmente, come invece è accaduto nel nostro Paese, a favore di alcuni e a danno di altri. Tutti sappiamo quale fine stesse per fare l’Italia e per rimediare ai guasti, in assenza di una “sana invidia”, da parte di coloro che hanno preferito allontanarsi dalla politica, che potesse fungere da incentivo allo sviluppo di una “sana indignazione” per respingere gli esiti sociali dell’azione di un governo che confondeva l’esercizio del potere economico con quello del potere politico, il Paese ha dovuto subire il rimedio del “governo dei Professori”. Lo scopo ultimo di questo governo è stato quello di restituire l’Italia al novero dei Paesi che ancora intendono lenire caritatevolmente le disuguaglianze distributive con il welfare State tradizionale, anziché adoperarsi per favorire l’introduzione del “reddito di cittadinanza” col quale, con una rinnovata fiducia di tutti nei confronti dell’azione politica, avviare la società italiana verso la realizzazione duratura di una società giusta.
3 commenti
1 francesco Cocco
17 Febbraio 2013 - 13:03
La riflessione di Gianfranco Sabattini, come sempre ricca di stimoli ed espressione dei suoi interessi umanistici (umanista più di quanto non dimostri di esserlo il suo collega economista prof. Monti) critica la mia riflessione e di questo lo ringrazio perché è un modo per stimolare il dibattito.
Quasi sempre sono d’accordo con le le sue riflessioni ma stavolta dissento totalmente. Vi è nel suo scritto un’equiparazione tra lotta di classe ed operaismo che è molto distante dal pensiero marxiano. Accettando le sue affermazioni, In qualche modo ne conseguirebbe una cristallizzazione anti-storicistica di quel pensiero, che nasce nell’ alveo dell’ ideaalismo tedesco, e come tale profondamente storicista.
Del resto non bisogna andare molto oltre, basta una scorsa al Manifesto del ‘48 per comprendere come la lotta di classe non possa essere cristallizzata ad un momento storico ma impronti di sé tutta la storia umana (cose che Gianfranco Sabattini conosce bene).Cioè non va confusa la fase leninista di quel pensiero con la complessiva elaborazione sviluppatasi in quasi 150 anni. Oggi difficilmente potremmo incentrare il conflitto di classe tra capitalisti e classe operaia. Come evidenziato nella mia riflessione, la lotta di classe assume configurazioni diverse : non si manifesta solo con le “tute blu” ma con le tante sfaccettature che assume la classe che è in contrapposizione (avendone coscienza o meno) con i detentori degli strumenti di produzione.
2 Gianfranco Sabattini
18 Febbraio 2013 - 19:11
Cagaliari, 18.2.2013
Francesco Cocco giustamente mi bacchetta. Chiedo venia per aver osato, temerariamente, un’invasione di campo e per essermi espresso con superficialità riguardo a questioni rispetto alle quali non ho la competenza e la conoscenza delle quali dispone Francesco. In ogni caso, intendo precisare che non era mia intenzione cristallizzare in modo anti-storicista il rapporto tra “lotta di classe” e “operaismo”. Sono consapevole del fatto che l’operaismo è stato la forma in cui la lotta di classe si è storicizzata in un dato momento della storia dell’umanità. Tuttavia, ammetto di aver avuto la presunzione, esprimendomi in quel modo, solo di palesare nel migliore dei modi il mio pensiero sull’argomento in discussione, ovvero sulla natura dell’invidia e dell’indignazione come forma di critica sociale.
Voglio evidenziare, però, che da economista, pur non condividendo l’ideologia marxiana, di Marx condivido la prospettiva di analisi dei fatti sociali, in quanto ho sempre utilizzato nella mia attività professionale (di docente e di ricercatore) quella dell’istituzionalismo, della quale Marx è stato il primo formulatore ed il primo a proporne l’utilizzo. Di Marx, però, non ho mai condiviso e continuo a non condividere il metodo di analisi del processo storico, mosso e motivato dalla lotta di classe, intesa nella sua accezione più generale alla quale rimanda nel suo commento al mio articolo Francesco Cocco. E dico subito perché.
A parte le considerazioni che possono essere svolte sugli esiti dei rapporti tra chi detiene gli strumenti di produzione e chi non li detiene, io non credo nei processi storici che travalicano la responsabilità degli uomini; io credo nella progettualità umana e nell’impiego della ragione per la soluzione di qualsivoglia problema sociale. Non credo che una prospettiva di analisi del processo storico che faccia discendere l’evoluzione di quest’ultimo da rapporti sociali deresponsabilizzanti, in quanto deterministici, renda onore alla razionalità degli uomini. La lotta di classe come “motore” del processo storico non è altro che lo specchio dello stesso processo alimentato dalla presunta esistenza di istituzioni dotate di capacità auto-organizzative, che orienterebbero l’uomo, secondo l’ideologia del liberismo, a comportarsi spontaneamente (avendone coscienza o meno) nel modo per lui più conveniente. In entrambi i casi, l’uomo è destinato a subire gli esiti del processo storico e a non poter essere il protagonista della propria esistenzialità. Un Abbraccio a Francesco.
3 fraqncesco Cocco
18 Febbraio 2013 - 20:50
Caro Franco, non mi permetterei mai di bacchettarti per la semplice ragione che ho tanto stima di te, ed apprezzo i tuoi interessi umanistici che danno vita alle tue analisi economiche e non le fanno essere astratte e schematiche formulazioni. Sono intervenuto perchè accettare la tua posizione finirebbe per porre termine ad un certo tipo di lotta che mi ha coinvolto per quasi 60 anni (da quando eravamo ancora ragazzi) . Questo non significa che la tua prospettiva non abbia senso, solo che si sviluppa in un altro orizzonte. .
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