Gonario Francesco Sedda
1. Stando ai dati e alle tendenze di breve periodo “tutti” sono convinti che alle prossime elezioni politiche vinceranno i “democratici e i progressisti” (PD, Sel ed altri), perderà la “destra populista” (PDL ed altri), perderà la “destra liberal-liberista e/o del mercato sociale” (M. Monti, UDC ed altri), perderà la “pancia anarco-populista” (B. Grillo) e perderà la composita “rivoluzione civile” (movimenti civici, sinistre anticapitalistiche e/o antiliberiste, forze antiberlusconiane/antimontiane). In questo quadro l’azione dei perdenti, tendente a consolidare e migliorare la propria forza o a minimizzare i danni della sconfitta, è da una parte legittima e dall’altra incapace di modificare l’esito che è probabilissimo: la “destra populista” (il PDL di S. Berlusconi e i suoi cespugli) perderà.
2. Ma come vinceranno i “democratici e progressisti”? E come intendono gestire la loro vittoria? L’attuale legge elettorale non solo è una “porcata”, ma è una “porcata di destra” che in nome di un maggioritarismo universale e condiviso può tornare utile anche ai “non-conservatori” liberal-liberisti o ai demo-progressisti. Tuttavia neppure una legge antiproporzionalista, per quanto porcellona, può di per sé fare in modo che sempre tutte le ciambelle abbiano il buco. È servita ad azzoppare l’Unione di R. Prodi, ma anche ad assicurare la piena e larga maggioranza di Berlusconi. Ed ora? La probabilissima vittoria dei “democratici e progressisti” sarà piena e larga o zoppicherà? Rivivremo sotto la guida di P. Bersani lo stesso tipo di crisi che abbiamo conosciuto con l’ultimo governo di Prodi?
Non sembrerebbe. È la stessa “costruzione” bersaniana e la sua “narrazione” ad aver accreditato e consolidato l’idea che non sarà così, nonostante il polverone ultimamente sollevato a proposito del voto “utile”. Infatti per tempo Bersani ha indicato “vicinanze” (UDC e dintorni, poi M. Monti) e “lontananze” (sinistre antigovernative, forze antiberlusconiane/antimontiane) riguardo alla sua proposta politica. Anche se l’esperienza del governo di Monti e poi la prosecuzione dell’impegno politico di quest’ultimo (con la presentazione di una propria lista e la guida di una coalizione) hanno complicato il cammino di Bersani, tuttavia il suo progetto ha conservato la propria forza e rimane confermato.
3. E che ha detto e dice Bersani? Che anche con il 51% al Senato (cioè con una vittoria piena, non azzoppata) occorrerà ragionare come se fosse il 49% e aprire a Monti. Questa apertura è qualcosa di più stringente dell’allargamento al “centro liberale” (UDC e dintorni) come si configurava nella Carta d’Intenti (del PD e poi della Coalizione). In caso di vittoria piena Bersani poteva andare avanti anche senza e contro P. Casini senza grosse difficoltà in Italia e in Europa; in caso di vittoria azzoppata avrebbe potuto coinvolgere lo stesso senza pagare un prezzo troppo pesante. Ma di Monti non può farne a meno in entrambi i casi, sia con una piena vittoria sia con una vittoria azzoppata: senza Monti e ancor peggio contro Monti le difficoltà in Europa e nel mondo sarebbero grandissime e sarebbero grandi anche in Italia perché avrebbe contro le “due destre” e nella comune lotta di opposizione potrebbe ripartire il progetto di riunificazione sotto l’ombrello del PPE e senza lo screditato e decotto Berlusconi. Ma con Monti non si va gratis: “Ma stiamo scherzando!” – ripeterebbe. La forza dell’euromontismo ora è tale da annullare persino il vantaggio di una probabile vittoria non azzoppata della coalizione demo-progressista. Tuttavia quest’ultima non mostra molta consapevolezza della morsa che potrebbe stringerla e non dà segnali di volersi attrezzare per salvare almeno il suo “riformismo debole”. Preferisce sollevare il polverone del “voto che aiuta la destra” nel momento stesso in cui rischia di essere definitivamente catturata dalla destra.
4. I giochi sono confusi, ma non bisogna perdersi. La “destra populista” di Berlusconi accusa la destra montiana di essere la “stampella di Bersani” per arginare le perdite verso il centro; Casini e Monti rispondono rimarcando il fallimento berlusconiano della “rivoluzione liberale” assieme al perdurante populismo del PDL e accentuando occasionalmente le critiche al PD per nascondere la stampella; il PD attacca Berlusconi, si rammarica senza esagerare col centro “liberale e sicuramente europeista” e accusa la lista “rivoluzione civile” di connivenza col nemico per arginare le perdite di Sel verso la sinistra antiberlusconiana/antimontiana. In questo contorto labirinto dello scontro propagandistico tutti hanno perso la memoria di quello che hanno fatto o se ne pentono; e abbondano in promesse che non manterranno o che onoreranno in una versione irriconoscibile.
5. Se a queste elezioni andiamo ancora con una porcata di legge elettorale non è per necessità naturale. I partiti maggiori (e dunque con le maggiori responsabilità) hanno usato ogni ostacolo, anche il più piccolo, per far fallire qualsiasi soluzione che non favorisse il proprio tornaconto elettorale nel breve periodo. Eppure, fare qualcosa di meglio della legge porcellona non era davvero troppo difficile! Ma questa legge tanto odiata e vilipesa può resistere perché è nata dal ventre torbido di una cultura maggioritarista che è largamente condivisa. È la cultura del bipolarismo più o meno forzato, dei partiti a vocazione maggioritaria; è la cultura della violenza decisionista che – con un curioso miscuglio di reazionarismo occidentale e di breznevismo sovietico – vede nella democrazia non l’intelaiatura dentro la quale esercitare l’azione di governo, ma un ostacolo a governare efficacemente; è la cultura che per governare ritiene ormai d’impaccio persino avere dalla sua parte la maggioranza “reale” dei voti e impone leggi truffaldine che trasformano le minoranze “reali” in maggioranze elettorali. In tutto il mondo le democrazie maggioritarie governano con “minoranze bulgare”. È questo il “bambino sano” che piace ai più e che nuota nell’acqua sporca e puzzolente della legge porcellona.
E allora, che fare? Ognuno voti secondo le proprie convinzioni. Nessuno pretenda un voto che non sia di condivisione sostanziale della propria proposta politica.
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