Flessibilità del mercato del lavoro e sicurezza sociale

20 Settembre 2008
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Gianfranco Sabattini

Nel suo ultimo libro (Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Roma-Bari, 2007), Luciano Gallino, sociologo dell’Università di Torino, affronta uno dei temi attualmente più discussi. Notoriamente, gli alti tassi di disoccupazione della maggior parte delle economie industriali dell’Unione Europea, sono giudicati, da molti economisti di tutti gli orientamenti politici, non più sostenibili; la loro origine tende ad essere individuata nei livelli di sicurezza sociale che i paesi europei avrebbero garantito ai loro cittadini a scapito dei ritmi di crescita del sistema economico. Conseguentemente, la riduzione del welfare state è divenuta l’obiettivo principale di quanti hanno a cuore il problema della crescita e della disoccupazione. Da qui la necessità, per i critici del welfare state, di flessibilizzare il mercato del lavoro, rendendo più facile la possibilità per le attività produttive di licenziare le unità occupate che dovessero essere valutate in esubero durante i periodi in cui si ristrutturano. Da dove deriva questa linea di pensiero che rinviene nella eccessiva rigidità del mercato del lavoro la causa dei bassi tassi di crescita delle economie nazionali e del formarsi di una disoccupazione strutturale?
Per Gallino, la necessità di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro deriva dallo scenario seguente. L’esigenza di tale flessibilità è avvertita dalle attività produttive per via delle ricorrenti ristrutturazioni cui sono costrette per competere sui mercati internazionali. Parallelamente, è esercitata una crescente pressione economica, politica, sindacale e culturale perché siano adottate all’interno dei singoli paesi politiche pubbliche, incorporanti la considerazione della forza lavoro alla stessa stregua di uno qualsiasi dei restanti fattori produttivi, che portino alla moltiplicazione dei lavori flessibili per accrescere al tempo stesso flessibilità e sicurezza sociale dei lavoratori. A tal fine, si tratta di provvedere affinché i costi originati dalle politiche pubbliche flessibilizzanti siano temperati con intervalli ad hoc ed a favore della forza lavoro più debole. Ciò comporta un’ampia libertà di licenziamento per le attività produttive, in modo che la perdita della stabilità occupazionale non si configuri per la forza lavoro come “trappola della precarietà”, né sia vissuta come forma di stabilizzazione sociale compensativa della precarizzazione della vita personale. Le politiche pubbliche flessibilizzanti, perciò, mirano a compensare l’instabilità occupazionale attraverso la compressione massima del tempo intercorrente tra due forme precarie di lavoro.
Le politiche pubbliche di flessibilizzazione del mercato del lavoro trascurano i costi sociali e personali a carico dei singoli lavoratori; tali costi sono percepiti, nel medio-lungo periodo, come una ferita dell’esistenza e una diminuzione dei diritti di cittadinanza che la cultura del welfare state dà per scontati. Il maggior costo umano del lavoro flessibile è riassumibile nell’idea di precarietà; essa prende forma per un lavoratore con il suo inserimento in una serie ininterrotta di contratti di lavoro a tempo, senza alcuna certezza di riuscire a stipulare un nuovo contratto prima della fine di quello in essere. In conseguenza di ciò, il termine precarietà non connota la natura dei contratti a tempo, bensì la condizione sociale ed umana che deriva da una sequenza di essi che non ammette vie di uscita.
Gallino, contro la flessibilità precarizzante propone l’avvio, da parte di tutti i paesi industrializzati coinvolti nei processi di globalizzazione, di una politica mondiale del lavoro, con cui perseguire l’obiettivo del livellamento del costo del lavoro dei paesi arretrati a quello dei paesi industrializzati; in tal modo, rimuovendo lo squilibrio che esiste tra i primi ed i secondi, verrebbe rimossa la “domanda ossessiva” di flessibilità del marcato del lavoro all’interno dei paesi industrializzati, originando essa, per Gallino, unicamente dalla persistenza di quello squilibrio. Per sottrarsi agli esiti della rigidità del mercato del lavoro dei paesi industrializzati, infatti, le attività produttive di questi cesserebbero di trovare convenienza a delocalizzarsi all’interno dei paesi arretrati per avvantaggiarsi dei differenziali salariali, allargando in tal modo nei loro paesi d’origine le opportunità occupazionali a tempo indeterminato.
Ciò che non convince della critica di Gallino è l’idea che sia proponibile la prospettiva di una politica del lavoro perseguita a livello mondiale; l’attuazione di una simile politica troverebbe gli stessi ostacoli che trovano le altre politiche proposte per la soluzione di altri gravi problemi (inquinamento, controllo della popolazione, esauribilità di alcune risorse naturali non rigenerabili, ecc.). Meglio sarebbe, forse, incominciare a pensare seriamente a come riformare dalle fondamenta il welfare state perché, a parità di risorse impiegate nella sicurezza sociale, sia introdotto un reddito minimo di cittadinanza, la cui istituzionalizzazione, come evidenziano i suoi sostenitori, sdrammatizzerebbe tutti i problemi della precarietà del lavoro, senza la necessità del coinvolgimento dei paesi industrializzati del mondo, al presente solo impensabile.

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