Gianfranco Sabattini
Cesare Geronzi si confessa, da confiteor non pentito; intervistato da Massimo Mucchetti, esperto giornalista economico. Nell’intervista, “Potere, banche e affari. La storia mai raccontata”, non si riconosce alcun demerito; anzi, sia pure dotato a volte della cattiva informazione trasmessagli dai dirigenti delle istituzioni da lui gestite o presiedute (Capitalia, Mediobanca e Generali), afferma che nel districarsi dalle singole situazioni si è sempre comportato da abile cunctator (temporeggiatore), nel superiore interesse nazionale. Può darsi che Geronzi nel perseguire l’interesse nazionale abbia fatto uso delle sue qualità temporeggiatrici, ma per valutare gli esiti delle sue decisioni, “al netto” di una loro improbabile indipendenza dal mondo esterno, occorre considerare, non solo il suo stile comportamentale, ma anche il contesto sociale, politico ed economico rispetto al quale lo stile avrebbe dovuto corrispondere alla bisogna. A tal fine, può servire il confronto dell’”etica comportamentale sul piano professionale” di Geronzi con quella di un altro personaggio, Enrico Cuccia, il quale, come accadrà a Geronzi durante la Seconda Repubblica, ha occupato, durante la Prima, il vertice del potere finanziario per la cura degli interessi del capitalismo nazionale.
Dal confronto emergono due mondi distinti e contrapposti. Uno, quello di Cuccia, ha curato gli interessi privati di un mondo capitalistico, quello italiano, la cui radice familiare, operando in un mondo indebolito dalla guerra e reso ristretto ed asfittico dalle barriere protettive che lo sottraevano agli stimoli della competizione internazionale, lo rendeva particolarmente vulnerabile. Cuccia, nello svolgimento della sua attività, non ha mai perso di vista l’interesse collettivo che ha sempre difeso a fronte spesso delle pretese delle “famiglie” da lui protette, grazie all’autonomia che l’istituzione creditizia da lui diretta ha saputo acquisire per il suo tramite nei confronti di tutti. L’altro mondo, quello di Geronzi, durante il processo di liberalizzazione dei mercati, ha mostrato una “maggiore apertura” alle pretese dei capitalisti; l’acquiescenza ha spinto Geronzi a sottostimare la natura dell’”assalto” all’integrità del bene pubblico da parte di coloro, che, pur finanziati dalle istituzioni da lui governate, non hanno esitato a rimuoverlo quando ha tentato di opporre un limite al processo di appropriazione-concentrazione della ricchezza nazionale. Per rendersi conto delle differenze tra i due mondi (quello di Cuccia e quello di Geronzi) e del loro diverso impatto sul sistema sociale, politico ed economico è d’uopo un breve confronto tra essi.
Il mondo di Cuccia è nato con Mediobanca; questa è stata fondata nel 1946 per iniziativa di Raffaele Mattioli (allora Presidente della Banca Commerciale Italiana che ne è stata finanziatrice insieme al Credito Italiano e al Banco di Roma). Mediobanca ha avuto lo scopo istituzionale di stabilire un rapporto diretto tra il mercato del risparmio e il fabbisogno finanziario per il riassetto produttivo delle imprese dopo la seconda guerra mondiale, al riparo delle mire espansionistiche del settore pubblico sorretto dai due partiti maggiori (PCI e DC), che, per quanto opposti sul piano ideologico, erano portatori di idee non del tutto favorevoli all’iniziativa privata.
La professionalità con cui Cuccia ha condotto Mediobanca ha consentito a questa di guadagnare presto una posizione di assoluto prestigio nel mondo italiano della finanza delle Prima Repubblica. L’istituzione, con l’assunzione di piccoli pacchetti azionari dei suoi assistiti, quali, ad esempio, la Snia Viscosa, la Pirelli e la Fiat, ha operato tramite Cuccia sempre con autonomia di giudizio sulle operazioni da condurre; in particolare, di rimanere sempre al di fuori delle influenze politiche che invece nel corso del tempo hanno progressivamente interessato l’Iri, col quale Mediobanca, durante la presidenza Prodi, a partire dal 1982, ha avuto forti contrasti, anche per effetto della conflittualità insorta (o indotta) al suo interno tra i diversi livelli direzionali. Nel 1988, le posizioni conflittuali all’interno di Mediobanca sono state momentaneamente ricomposte ed è stata realizzata la sua privatizzazione ad opera delle “famiglie assistite” che hanno gestito il controllo della proprietà attraverso la costituzione di un sindacato di blocco (patto parasociale stretto tra gli azionisti, vincolante il trasferimento di quote di azioni, al fine di impedire a un socio di vendere il proprio pacchetto azionario ed evitare così che le azioni della società fossero acquistate da soci non graditi alla maggioranza di controllo). Dopo la morte di Cuccia, nel 2000, Mediobanca è stata gestita da Vincenzo Maranghi, che era stato tra i principali protagonisti, spesso in contrapposizione con i soci-azionisti di minoranza, del processo di privatizzazione delle grandi imprese pubbliche (Telecom Italia, Enel, Banca di Roma, Banca Nazionale del Lavoro ed altre ancora). Dopo il 2000, privo della “protezione” del suo mentore, nell’aprile 2003 Vincenzo Maranghi è stato “costretto” a dimettersi e negli anni successivi ha avuto inizio la prassi della nomina dei presidenti esterni alla “Banca di Cuccia”, l’ultimo dei quali nel 2008 è stato Cesare Geronzi.
Il mondo di Geronzi è Geronzi stesso che l’ha creato. Il Banchiere della Seconda Repubblica è entrato in Banca d’Italia nel 1960 e da dirigente del Centro operativo cambi si è affermato come abile gestore del fixing quotidiano lira-dollaro. Nel 1982, dopo una non felice esperienza in qualità di vicedirettore al Banco di Napoli, è passato alla Cassa di Risparmio di Roma (Cariroma), la quale, alla fine degli anni Ottanta, sotto la sua direzione, ha rilevato il capitale azionario del Banco di Santo Spirito, acquisendo nel 1990 anche il controllo del Banco di Roma. Successivamente, il gruppo bancario che aveva come capofila Cariroma si è fuso, dando vita alla Banca di Roma. Questa, dopo ulteriori acquisizioni, sotto la guida di Geronzi, alla fine degli anni Novanta, si è espansa al Sud dell’Italia con l’acquisizione principalmente del Banco di Napoli; mentre, nel 2002, si è espansa al Nord assorbendo la Banca Popolare di Brescia e la Cassa di Risparmio di Reggio Emilia, creando un’unica unità bancaria, Capitalia. Dopo molte vicende, finanziarie e non, nel 2007 Geronzi, con la fusione per incorporazione di Capitalia in Unicredit, è stato nominato all’unanimità presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca e, nel 2008, l’assemblea del patto di sindacato di Mediobanca lo ha nominato presidente. Nel marzo del 2010, infine, è stato designato da Mediobanca quale presidente delle Assicurazioni Generali di Trieste, carica che ha conservato sino al 6 aprile 2011, quando, durante la riunione di un consiglio di amministrazione straordinario della compagnia assicurativa, Geronzi è stato costretto alle dimissioni, dopo che 10 consiglieri su 17 avevano manifestato l’intenzione di presentare una mozione di sfiducia nei suoi confronti.
Se per oltre vent’anni Geronzi è stato alla guida di banche importanti e della più grande compagnia di assicurazioni italiana ha ragione Mucchetti a considerarlo il banchiere dei banchieri della Seconda repubblica, così come Cuccia lo è stato della Prima; il protagonismo dei due superbanchieri, tuttavia, è stato diametralmente opposto. Cuccia, nelle condizioni in cui ha operato, ha concorso alla ricostruzione della base industriale del Paese, facendo dell’Italia una delle massime “potenze industriali” a livello mondiale, sempre ispirandosi al principio che fosse meglio essere “verdi di rabbia per un affare mancato che rossi di vergogna per averlo fatto”. Geronzi, dal canto suo, è stato il “fluidificatore” delle relazioni finanziarie utili agli “assaltatori della diligenza”, allorché, dopo il 1993, è iniziata la distruzione dell’economia mista dell’Italia, che, sino ad allora, aveva svolto una funzione regolatrice e di stabilità del sistema sociale ed economico nazionale. Nello smantellamento dell’Iri, attraverso il processo di privatizzazione delle grandi aziende a partecipazione azionaria dello Stato, Geronzi, pur consapevole della debolezza sul piano finanziario delle imprese italiane scalatrici, con Capitalia, assieme a UniCredit ed a Banca Intesa, è stato tra i grandi finanziatori delle “scalate”, creando così le condizioni perché l’Italia, con un sistema industriale gravato di un eccesso di debito, vedesse prima compromesse le sue potenzialità di crescita e sviluppo e, successivamente, a partire dalla fine del secolo scorso, fosse coinvolta, anche a causa del crescente indebitamento pubblico, nella crisi che sinora (e forse per un lungo periodo a venire) è costata (e costerà) agli italiani, esclusi dalle “stanze dei bottoni”, lacrime, sangue e sudore.
Adesso che è lontano “dalla funzione che dà il potere”, Geronzi si è sentito gratificato dall’opportunità che Mucchetti gli ha offerto di raccontare le vicende finanziarie che hanno caratterizzato la vita della Seconda Repubblica, di proporre interpretazioni di quanto accaduto e di avanzare proposte: “Austerità e sviluppo – conclude Geronzi” – sono un ossimoro. Bisogna scegliere, e scegliere per lo sviluppo. Sennò…l’alternativa sarà la nazionalizzazione delle banche e di parecchio altro. Come negli anni trenta”. Per sventare tale pericolo, Geronzi dubita che un Monti-bis possa esserne all’altezza; le propensioni per la riproposizione del Professore alla giuda del prossimo esecutivo si alimentano, per il banchiere dei banchieri della Seconda Repubblica, “della debolezza del personale politico di piazza” oggi esistente in Italia. Le propensione per un Monti-bis delineano solo “il crepuscolo della democrazia fondata sui partiti”. Monti, nella sua attività di governo, non ha inciso “sulle protezioni dei centri di potere della finanza” e non ha proposto “un’organica politica industriale”, in quanto gli è mancata la forza politica della quale avrebbe avuto bisogno e che potrebbe mutuare dal conforto delle urne.
Queste esternazioni di Geronzi inducono però ad una riflessione. La vigilia delle prossime elezioni mostra un Monti propenso ad acquisire tale forza e il suo attivismo, dopo le dimissioni da Premier, lo connotano come propenso ad avvalersi del supporto di un non ben distinto “Centro”, formato e finanziato in buona parte per iniziativa, diretta o indiretta, di alcuni che sono stati tra i principali protagonisti dell’”assalto alla diligenza” durante il processo di privatizzazione; con simili “compagni di viaggio”, gli italiani che sinora hanno pagato un pesante prezzo per il processo di trasformazione del capitalismo italiano e per la crisi ancora in atto hanno di che dubitare che il Professore, se riproposto dopo la prossima consultazione elettorale, possa portare a compimento il programma contenuto nella sua agenda: “Cambiare l’Italia, riformare l’Europa”.
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