Il montismo e la Sardegna, un’agenda da stracciare

7 Gennaio 2013
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Andrea Raggio

A proposito dell’organizzazione regionalista della Repubblica, l’Agenda di Mario Monti postula “una nuova collaborazione tra governo e autonomie”. Questa posizione ricorda quella berlusconiana “Regione amica del Governo amico” e sottovaluta la grave crisi del regionalismo - sotto il profilo dell’etica pubblica, dell’efficienza economica e amministrativa e della coesione nazionale - e l’urgenza di farvi fronte nell’interesse generale. Non è, purtroppo, il solo punto debole del programma montiano. A esso, infatti, si accompagnano l’assenza del Mezzogiorno, il silenzio sui diritti e il ruolo marginale riservato al lavoro. L’insieme di queste lacune e insufficienze comporta un giudizio d’insoddisfazione dell’Agenda soprattutto dal punto di vista dell’interesse del popolo sardo, punto di vista che dobbiamo sempre adottare quando giudichiamo le vicende nazionali.
Di là da queste debolezze programmatiche, è lo stesso comportamento del senatore Monti nella sua rapida trasformazione da tecnico prestato alla politica a politico arrembante, a segnare un forte distacco dalla nostra cultura ed esperienza autonomistica. Presumere d’essere il depositario del cambiamento, ergersi a capo, guida e controllore di una coalizione espressa da una élite ristretta: tutto ciò denota una visione aristocratica della politica. L’Autonomia, invece, implica una visione partecipativa. Nessuno dei grandi protagonisti dell’autonomismo sardo ha preteso di imporre proprie “Agende”, nessuno di essi ha ambito a porsi come guida indiscutibile. Tutti hanno, invece, promosso e organizzato la partecipazione popolare alla scrittura dei programmi di sviluppo. I punti cardine della Rinascita (articolo 13 dello Statuto) sono stati fissati dal Parlamento, le linee programmatiche sono state elaborate, verificate e aggiornate con l’incessante partecipazione popolare, a partire dal Congresso del popolo sardo del 1950. Sto parlando di eminenti personalità quali Emilio Lussu, Renzo Laconi e Paolo Dettori, nessuno di quali è sceso/salito in politica perché in politica vi era già da giovane e la loro idea di “politica alta” consisteva nell’intreccio tra la democrazia rappresentativa e la partecipazione sociale. Proprio grazie a questo intreccio la Sardegna è uscita dal buio della storia. E’ ben vero che negli anni recenti una personalità del mondo imprenditoriale è scesa in politica con l’ambizione d’essere capo indiscusso e con l’intento di rovesciare, diceva, la Sardegna come una calza. Aveva anche qualche buona idea. Ma il comportamento decisionista e autoritario l’ha tradito e gli elettori l’hanno bocciato, confermando così come sia radicata nei sardi la visione dell’Autonomia come democrazia di popolo. E’ su questo sentimento che occorre fare leva per portare la Sardegna fuori dalla drammatica crisi in cui è precipitata anche a causa dell’abbandono negli ultimi decenni di quella strategia.   
Quale sarà il connotato e quale la consistenza del movimento montiano in Sardegna? Per ora sappiamo che i cosiddetti moderati, UDC in testa, ancora abbarbicati al centrodestra berlusconiano, si accingono a transitare nel nuovo schieramento. Usciranno dalla maggioranza o la sosterranno ancora in questa nuova veste? Tra “moderati” di casa nostra il doppio gioco – uno a Roma, uno a Cagliari - è un vizio e temo che sarà tollerato dai montiani estremisti, determinati a far mancare al PD il successo al Senato per imporre, con il ricatto, Monti come premier. Casini l’ha detto: dopo Monti solo Monti. 
Non è escluso, dunque, che sulla collocazione del movimento in Sardegna e sulle relative candidature il controllore montiano sia flessibile al punto da consentire il perdurare del sostegno al centrodestra berlusconiano pur di ingaggiare nella lista senatoriale personaggi dotati di potere clientelare. Ecco perché a mio parere, il PD sardo deve lanciare da subito ai montiani in atto o in attesa d’esserlo una sfida sul terreno della democrazia autonomistica e dell’etica politica.

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