Massimo Villone
Le primarie vengono presentate e viste ormai come la cartina di tornasole della democrazia nei partiti e come modalità democratica di scelta dei candidati. Ma è proprio così? Ecco cosa ne pensa un eminente costituzionalista, già presidente della Commissione costituzionale del Senato (Il manifesto 2.1.2013).
Cala il sipario sulle primarie Pd. Due scuole di pensiero: festa di popolo, lenzuolata democratica per i favorevoli; un modo per dissimulare la debolezza di gruppi dirigenti incapaci di selezionare la rappresentanza, per i critici.
Probabilmente, c’è una parte di verità in entrambe le letture. Un tempo, le candidature erano decise negli organi di partito. Ma come si potrebbe, oggi? Le organizzazioni di partito si sono liquefatte, in un mosaico di segmenti giustapposti di stampo correntizio. I gruppi dirigenti nazionali vivono un forzoso armistizio di capi e capetti, ciascuno sorretto da una galassia di piccoli o grandi potentati locali. Con quale autorevolezza, reciproco riconoscimento, solidarietà quei gruppi dirigenti potrebbero scegliere i candidati, essendo le liste una misura dei rapporti di forza nell’arcipelago componentizio?
Quindi la scelta di Bersani era logica per un segretario, egli stesso espressione di quella realtà. Tutti nell’arena, e i sopravvissuti in lista. In mano al segretario una piccola riserva. Come se bastassero cinque o sei nomi eccellenti a garantire la qualità di un gruppo parlamentare a vocazione maggioritaria, e soprattutto a renderlo governabile. E rimanendo ancora aperta la partita dell’ordine di lista, decisiva nel Porcellum. Ancora non è finita.
Vedremo. Ma intanto qualche valutazione è possibile sui vincitori. Una piccola spruzzata di noti dirigenti nazionali, e fuori alcuni personaggi di lungo corso. Per il resto, tante facce apparentemente nuove. Apparentemente. Perché guardando meglio troviamo persone già impegnate in politica attiva. Componenti di assemblee elettive, assessori, qualche sindaco o ex-sindaco, amministratori locali di ogni tipo e caratura, qualche dirigente di partito. Nel complesso, la politica regionale e locale si è impossessata della rappresentanza parlamentare Pd. La cosa ci riguarda tutti, perché il Pd formalmente si candida a governare il paese, e - comunque vada - sarà centrale nelle sorti del centrosinistra.
È bene o male, per l’Italia? Il dubbio è legittimo, anzitutto perché la politica regionale e locale è il ventre molle del sistema italiano. Una verità resa evidente dalle inchieste giudiziarie, dalla corte dei conti, e dalla stampa. L’illusione - da molti condivisa negli anni novanta - che rimettere radici nella realtà dei territori fosse la cura per una politica nazionale in disfacimento, si è dissolta. Eppure, una volta presa la via delle primarie l’esito era inevitabile.
L’istituzione regionale e locale è la sola che offre oggi l’occasione di creare consenso. In essa va, in un modo o nell’altro, oltre la metà della ricchezza prodotta nel paese. In essa passano in larga misura le scelte che toccano direttamente la vita dei cittadini. In essa vivono strumenti che sono sostanzialmente clientelari, pur senza giungere al codice penale: dal presentare qualcuno al funzionario competente per una pratica, al sostenere i soggetti no-profit che operano sul territorio, o magari a far colmare una buca in una strada piuttosto che in un’altra. Venute di fatto meno le organizzazioni di partito, unico riferimento sono oggi le persone che occupano le istituzioni: consiglieri, assessori, sindaci, presidenti, e tutto il variegato mondo di amministratori del più vario tipo. La capacità di fare politica si traduce nell’intestare a se stessi un mondo di rapporti trasformabili in voti, organizzandolo e coltivandolo con cura, perché è l’unico patrimonio spendibile in un sistema di partiti che non assicura più un cursus honorum razionale.
Dunque, il risultato delle primarie Pd era scontato e prevedibile, ancor più per la minore affluenza rispetto alle primarie sul candidato premier. Meno votanti, più incidenza sull’esito delle organizzazioni personali del consenso messe in campo.
Secondo un’opinione, è comunque il modo migliore oggi disponibile per selezionare il ceto politico. Ma ci sono altre questioni: è bene iniettare nella rappresentanza parlamentare di un partito che vuole governare l’Italia una massiccia dose di localismo? Potrà un parlamento così condizionato cancellare anche una sola provincia, perseguire con tenacia il risanamento della finanza pubblica, contrastare il voto di scambio, rendere più incisiva la legge anticorruzione, resistere agli egoismi territoriali e garantire l’unità del paese? Nel voto di febbraio sarà questa la migliore lista Pd nella inevitabile competizione con Monti? E se il premier uscente riuscisse a mettere in campo - senza lenzuolate di sorta - una lista davvero di qualità, ricca di competenze, su un progetto politico ben definito e parole d’ordine chiare? Basterebbero a competere con efficacia le truppe cammellate locali, che sono comunque - è bene ricordarlo - piccola cosa rispetto al corpo elettorale nel suo complesso?
Problemi vengono in specie dalle primarie «aperte». Un punto di principio: è giusto che il voto di qualcuno che non ha mai fatto vita di partito conti allo stesso modo del voto dell’iscritto che quella vita ha fatto, magari quotidianamente e con passione? Un punto di fatto: cosa ci si può aspettare domani in campagna elettorale dall’iscritto che, avendo sostenuto nella primaria un candidato, lo ha visto sconfitto da voti che non sa da chi sono stati espressi e da dove sono arrivati? E cosa farà l’elettore non iscritto se il candidato da lui sostenuto non ha avuto successo? Voterà la lista Pd o si volgerà altrove?
È un gioco in cui si può solo perdere. Anche perché al di là dei dubbi sulle primarie autogestite, senza garanzie e controlli certi, contare un giorno o due ogni cinque anni di mandato ha poco a che fare con la democrazia. Un sistema democratico è quello in cui il cittadino può farsi sentire ogni giorno, sugli indirizzi e sulle scelte di governo. Per questo, sono necessarie forme organizzate e stabili della politica, e non basta la partecipazione usa e getta di una investitura plebiscitaria del leader o del rappresentante di turno, né le forme volatili di democrazia immediata su internet. Cerchiamo di evitare il rischio che le lenzuolate diventino sudari.
Se dovessimo fare un augurio a Bersani, sarebbe quello di ricostruire un partito degno di questo nome, che non abbia bisogno di primarie per puntellare una dirigenza traballante, e sia capace di garantire in altro modo la qualità della rappresentanza. Può darsi che a un partito forte - in fondo - pensasse. In tal caso, provaci ancora, compagno Pier Luigi. Non stare lì a pettinare le bambole.
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