E’ utile un “derby antimafia” Ingroia-Grasso?

4 Gennaio 2013
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Carlo Dore jr. 

Qualcuno, ai tempi del fascismo, lo chiamava “il pretore rosso”. E non era, in realtà, né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per fare la volontà degli squadristi che invadevano le aule. Era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano rosso (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria“.
Chissà se le parole utilizzate da Calamandrei per descrivere la figura di Aurelio Sansoni (il “pretore rosso” che opponeva la forza del diritto alla protervia dei Moschettieri del Duce) hanno sfiorato la mente di Antonio Ingroia mentre, nel presentare la sua lista di “Rivoluzione civile”, avocava a sé il “primato dell’antimafia”, rivendicando il monopolio assoluto dell’eredità morale di Falcone e Borsellino.
 Abbandonato in tutta fretta  - tra lo stupore di colleghi ed osservatori internazionali - il prestigioso incarico affidatogli dall’ONU in Guatemala, l’ex Procuratore di Palermo non ha risparmiato i riferimenti polemici al PD (rilevando la scarsa incisività delle proposte elaborate dal partito di Bersani in tema di legalità e lotta alla criminalità organizzata) e al neo-candidato democratico Piero Grasso, asceso, a suo dire, al vertice della procura nazionale antimafia grazie ad una legge “appositamente confezionata da Berlusconi per sbarrare l’accesso alla superprocura” ad un candidato scomodo come Giancarlo Caselli.
 Insomma, le parole di Ingroia aprono un nuovo fronte polemico all’interno della sinistra italiana, la quale si trova ora impegnata in un imprevisto ed imprevedibile “derby dell’antimafia”, con il consueto corollario di accuse, controaccuse, dubbi ed intrerrogativi proposti da attivisti e militanti attraverso i giornali e i social network: è “più antimafia” il PM che per primo ha svelato al Paese l’esistenza di una trattativa tra Stato e Cosa nostra durante la stagione delle stragi, o il Procuratore che ha condotto Provenzano alla sbarra? E’ “più antimafia” il partito di Rosario Crocetta e Rita Borsellino, o il movimento in cui milita il figlio di Pio La Torre? E soprattutto, chi, tra Ingroia e Grasso, è in grado di rappresentare meglio l’ideale di legalità che ha animato la riscossa civica di un Paese allo sbando, dopo gli attentati di Capaci e Via D’Amelio?
 Lo scenario che fa seguito all’impietoso “j’accuse” di Ingroia risulta però denso di zone d’ombra, la cui esistenza risulta innegabile anche per chi, in questi anni, del Partigiano della Costituzione ha sempre apprezzato il coraggio e sostenuto le battaglie a difesa dei principi della Carta Fondamentale. Si avverte infatti, vicino ed incombente, il pericolo che il tema della lotta a Cosa Nostra venga degradato da grande questione nazionale a mera bagarre da campagna elettorale, che l’icona di Falcone e Borsellino venga spesa nell’ossessiva ricerca di un misero pugno di voti, che questo incomprensibile “derby dell’antimafia” finisca col ridare persino fiato ai trombettieri della destra berlusconiana, sempre pronti a etichettare i brillanti risultati investigativi conseguiti dalla Procura di Palermo come “pure strumentalizzazioni delle toghe politicizzate”.
 Ecco allora tornare d’attualità il pensiero di Calamandrei, dal quale forse si può ricavare il modello di antimafia a cui si ispirerebbe “il giudice giusto”, qualora questi decidesse di affrontare il problema della repressione del crimine organizzato dalla prospettiva del legislatore. Così ragionando, infatti, anche l’antimafia non può considerarsi “né rossa né bigia”, non costituisce materia manipolabile in ragione delle esigenze di fazione. Essa impone a uomini della levatura di Grasso e Ingroia l’onere di abbandonare la dimensione della polemica sterile per accedere a quella, assai più nobile, dell’elaborazione costruttiva: di aprire, in altri termini, un confronto sull’individuazione degli strumenti più idonei (riforma del sistema delle impugnazioni; interruzione della prescrizione dopo il rinvio a giudizio; innalzamento dei termini di prescrizione per i reati connessi alla criminalità economica; regolamentazione del fenomeno dell’autoriciclaggio) per contrastare efficacemente il fenomeno mafioso.
Dalla polemica alla proposta: il modello del “giudice giusto” può dunque costituire un utile riferimento per riportare i temi della legalità e della lotta al crimine organizzato al centro del dibattito politico, interrompendo sul nascere il pericoloso “derby dell’antimafia” che rischia di lacerare le varie anime della sinistra italiana alla vigilia del voto.
          

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