Germanizzare l’Europa comunitaria per “salvarla”?

5 Dicembre 2012
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Gianfranco Sabattini

Per rendere virtuosa l’Europa comunitaria dobbiamo “germanizzarla”? Così la pensa la Merkl e non solo. Del resto, questa è la versione aggiornata e imbelletata di un’antica pretesa di egemonia dei tedeschi, che risorge periodicamente nella storia in versione più o meno tragica e sempre inaccettabile. A questa posizione inizia ad essere opposta una seria resistenza in sede culturale prima che politica. Ecco sul tema una riflessione del Prof. G. Sabattini dell’Ateneo cagliaritano, che trae spunto da un recente saggio di Federico Rampini.

1. Di recente la Casa editrice Laterza ha inaugurato una snella collana nella quale sono pubblicati libri volti a “sfatare” molti pregiudizi con cui si vorrebbero esorcizzare le cause della crisi economica che sta sconquassando alcuni Paesi dell’eurozona, tra i quali l’Italia. Uno dei libri della nuova collana, denominata “Idola”, è di Federico Rampini, corrispondente di “Repubblica” a New York e autore di numerosi saggi su molti aspetti della vita sociale ed economica di molti Paesi.
Il libro, riferito in particolare all’Italia, reca il titolo “Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale, Falso!”. A sostegno del suo convincimento, Rampini compie un’analisi per molti aspetti singolare: sostiene che è possibile salvaguardare il welfare realizzato, a condizione che i Paesi più esposti agli effetti della crisi in atto si “germanizzino”. Per intendere questa affermazione, occorre aver presente il discorso che la sorregge; ciò servirà alla fine a valutare se l’analisi di Rampini sia a sua volta un altro pregiudizio circa la possibilità di tenuta “imperitura” del modo capitalistico di produrre e del suo mercato dotato di capacità autoregolative.
Da anni, afferma Rampini, si è imposta un’interpretazione tragica della globalizzazione, nel senso che l’impatto della competizione fra l’Occidente e le potenze emergenti, come Cina, India, Brasile ed altre, sta risucchiando verso il basso molti Paesi di antica industrializzazione. Esiste però un modello organizzativo del sistema sociale e dell’economia in grado di fugare il pericolo dell’arretramento: quello della Germania federale. La capacità competitiva della Germania è stata ottenuta con elevate retribuzioni, in presenza di un movimento sindacale tra i più combattivi del mondo, di un alto livello di servizi sociali, di regole severe a tutela dell’ambiente, dell’attenzione riservata alla qualità della scuola pubblica e di una distribuzione del prodotto sociale tra le più ugualitarie. Tutto ciò è stato realizzato senza il tormento del problema della sostenibilità di un esteso welfare che paralizza i sistemi sociali più esposti alla crisi.
Dal punto di vista della sostenibilità nel lungo termine, un welfare generoso non è affatto impossibile, afferma Rampini; è solo necessario che il livello della spesa pubblica, per quanto alto possa essere, sia finanziato con un gettito fiscale adeguato. Il problema di fondo riguarda la disponibilità di “capitale sociale”, nel senso che maggiore è il livello di fiducia dei cittadini nelle loro istituzioni, maggiore è la loro disponibilità ad accettare gli alti costi del welfare. I Paesi dove il capitale sociale è scarso, dove esistono burocrazie pubbliche inefficienti, dove sono diffusi il privilegio e il mancato rispetto del merito, il patto che lega tutti al rispetto delle regole comuni è molto deficitario. L’Europa “germanica” (Svizzera, Austria, Olanda ed i Paesi nordici) grazie alla disponibilità di un alto livello di capitale sociale è riuscita a conservare l’alto livello di welafre, senza temere la competizione e la contrazione eccessiva del suo tasso di crescita.
Se questa parte dell’Europa è riuscita in questo intento, si chiede Rampini, come mai la Germania, di fronte alla crisi dei debiti sovrani dei Paesi della CE meno virtuosi, anziché esportare il suo modello organizzativo, pretende invece di esportare “ricette” informate ad un’insopportabile austerità? Rampini trova la risposta, non tanto nella scarsità del capitale sociale nei cosiddetti Paesi mediterranei in crisi, quanto in ragioni strettamente economiche. Il modello organizzativo della Germania ha due corollari: il primo, di natura culturale, recita che un Paese, per disporre costantemente di un elevato livello di risparmio, deve esportare più di quanto non importa e deve produrre più di quanto consuma; il secondo corollario, di natura economica, che, perché lo stesso Paese possa essere sempre in attivo, è indispensabile e obbligatorio che si contrapponga ad altri Paesi permanentemente in disavanzo. A sostegno della verità intrinseca a questi corollari, Rampini osserva che alla loro “logica implacabile non si sfugge. Il pianeta terra è un’economia ‘chiusa’: tra le nazioni che ne fanno parte, i conti devono compensarsi per forza”. Sulla base di questi due corollari, buona parte dell’establishment tedesco, condividendo una weltanshaunung pre-keynesiana, manifesta una spiccata propensione a legittimare l’”ordo-liberismo” di Friedrich von Hayek, che prevede regole severe, non per evitare gli esiti indesiderati del libero mercato, ma per realizzare un valido presidio a tutela della sua capacità di autoregolazione.

2. Ammesso e non concesso che la “germanizzazione” dell’Europa comunitaria, per la quale propende Rampini, possa nel lungo periodo rendere virtuosi tutti i Paesi dell’eurozona, non si può trascurare il fatto che il rigore germanico implicherebbe un serio squilibrio del futuro sviluppo dell’Europa comunitaria, nel senso che questo dovrebbe essere conseguito attraverso una politica neo-mercantlistica con cui acquisire un perdurante avanzo finanziario sull’estero. Si tratterebbe di una seria lesione dell’equilibrio dell’economia internazionale, che, ai fini di uno stabile funzionamento di tutte le economie mondializzate, non dovrebbe essere invece elevato a ideale normativo. La sua violazione non potrebbe non inquietare le altre aree dell’economia mondiale che dovessero subire gli esiti negativi dei loro deficit e le loro reazioni nei confronti dell’area economica in surplus sarebbero della stessa natura di quelle dei Paesi dell’eurozona poco virtuosi nei confronti dei Paesi “forti”.
Le probabili conseguenze di un tale sviluppo sarebbero devastanti per l’intera area comunitaria sul piano della stabilità, perché la crisi europea, “cacciata dalla finestra” con la “germanizzazione” dei sistemi sociali ed economici di tutti i Paesi membri, “rientrerebbe dalla porta”, a seguito delle reazioni dei Paesi in deficit nei confronti di quelli in surplus. Ciò che serve per ricuperare un’equilibrata organizzazione istituzionale ed economica per tutti i Paesi integrati nell’eurozona non è solo una “germanizzazione” generalizzata delle economie nazionali che ne fanno parte, possibilmente unificate sul piano politico; serve anche una governance globale dei rapporti economici tra tutte i Paesi comunitari, per porre rimedio agli esiti indesiderati del turbocapitalismo globalizzato, sorretto da un mercato che molti, tra i quali i tedeschi ordo-liberisti, ritengono un’istituzione dotata di capacità autoregolative.
A fronte di questa situazione l’istituzione dell’euro non poteva non tradire le speranze riposte in essa dai Paesi che l’avevano originariamente accettata. La nascita della moneta unica doveva esercitare una funzione di stabilizzazione all’interno dei Paesi dell’UE. Sennonché, la mancata unificazione politica dei Paesi dell’eurozona non ha consentito di realizzare un modello organizzativo sociale ed economico dell’Europa fondato su un patto di cittadinanza ed un’idea di civiltà largamente comuni e condivisi; e sin tanto che non si sarà formata un’opinione pubblica europea ed una società civile europea e non saranno rimosse le differenze esistenti sul piano della disponibilità di un altrettanto comune e condiviso capitale sociale, le differenze economiche tra Paesi virtuosi e Paesi poco virtuosi continueranno ad esistere ed a provocare nel breve periodo motivo di forte instabilità e di crisi ricorrenti nei loro reciproci rapporti.
Nel breve periodo, perciò, è gioco forza, per Rampini, che i Paesi in crisi cerchino un “nuovo pensiero economico” utile a suggerire le modalità d’uscita dall’attuale empasse, fidando sul fatto che le grandi crisi partoriscono grandi idee, come è accaduto dopo il 1929, allorché l’Occidente si è avvalso sul piano della politica economica del pensiero di John Maynard Keynes.
Al riguardo, Rampini, scontata la necessità di un ricupero delle regolazione dei mercati per rimediare ai guasti del reaganismo e del tacherismo che hanno causato lo smantellamento di quanto il pensiero keynesiano aveva consentito di costruire in difesa della stabilità del modo di funzionare dei sistemi economici ad economia di mercato, sembra scoprire l’”acqua calda” proponendo, per la cura dei mali attuali dell’eurozona, il “nuovo” pensiero economico, maturato negli USA, della Modern Monetary Theory, che “ha l’ambizione di essere la vera erede del pensiero di Keynes, adattata alle sfide del XX secolo”. Il nuovo pensiero keynesiano ritiene che dalla crisi si possa uscire non con l’austerità quale quella sperimentata in Italia, ma con il deficit pubblico, a condizione che risulti benefico nello scenario odierno e sia a tal fine “finanziato dalle banche centrali: comprando senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi”. In tal modo, per Rampini, almeno nel breve periodo, sarebbe possibile per questa via risparmiare il “dissanguamento del modello sociale europeo”, preso di mira dai salassi prescritti da cattivi dottori.

3. A parte le difficoltà di perseguire i presunti effetti utili con la nuova politica monetaria all’interno dei Paesi, come l’Italia, poco dotati del capitale sociale di cui abbisognerebbero, la proposta di Rampini solleva non pochi dubbi sulla sua efficacia. La politica neo-mercantilista che egli propone non contribuisce a realizzare una situazione economica che possa dirsi auspicabile. Ammesso e non concesso che la proposta concorra a “germanizzare” nel lungo periodo l’intera eurozona, non si può trascurare il fatto che, a livello internazionale, la “germanizzazione” implica per l’intera Europa comunitaria serie difficoltà per il suo equilibrato e stabile sviluppo, nel senso che questo dovrebbe essere conseguito in presenza di un perdurante avanzo della bilancia commerciale comunitaria. Si tratterebbe di una lesione dell’equilibrio dell’economia internazionale, che, ai fini di uno stabile funzionamento di tutte le economie mondializzate, non dovrebbe essere elevato a ideale normativo. La sua violazione non potrebbe non inquietare le altre aree dell’economia mondiale che dovessero subire gli esiti negativi dei loro deficit commerciali e le loro reazioni nei confronti dell’area economica in surplus sarebbero della stessa natura di quelle attuali dei Paesi dell’eurozona poco virtuosi nei confronti dei Paesi “forti”.
Ciò che invece serve anche a livello internazionale, nelle more della costituzione di un governo politico mondiale, è una governance dei rapporti economici tra tutte le aree economiche del mondo per porre rimedio agli esiti indesiderati di una forma di integrazione dell’economia mondiale che i “sacerdoti del libero mercato” hanno contribuito a realizzare, sostituendo il liberalismo del dubbio di Karl Popper con il liberalismo dogmatico di chi ritiene il mercato un’istituzione dotata di capacità auto-regolative e qualsiasi tentativo di disciplinarne il funzionamento un errore scientifico destinato a produrre esiti dannosi sul piano politico e sociale.
In altri termini, occorre che le relazioni economiche tra tutti i Paesi del mondo, siano essi integrati o meno all’interno di aree economiche regionali quale può essere l’area del mercato unico europeo, si svolgano affrancate dal “pensiero economico imperialista” che l’establishment tedesco mostra di condividere, convinto ancora che, per curare i propri interessi nazionali, sia meglio “mettere sul lastrico il proprio vicino”; com’è noto, questa massima ha ispirato le politiche vetero-imperialiste del passato.
 

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