Luciano Marroccu
Oggi alle 21 presso l’ex Liceo artistico in Piazzetta Dettori a Cagliari verrà rappresentata la giullarata scritta, recitata e cantata da Clara Murtas, con Rita Atzeri e Giuseppe Baldino alla chitarra. L’ingresso è libero.
E’ un modo per ricordare nel bicentenario un evento importante, ma dimenticato della storia sarda e per onorare l’avv. Salvatore Cadeddu, il conciatore Raimondo Sorgia e il sarto Giovanni Putzolu, che per quei fatti furono impiccati.
Ecco di seguito una bella rievocazione storica dell’evento, svoltosi nell’indimenticato, per la grande fame, annu doxi (1812), a cura dello storico Luciano Marroccu.
Per raccontare il fatto dobbiamo prima di tutto avere presente il luogo, Palabanda, una valle che si distende sotto il fianco occidentale di Castello, laddove Stampace, prima di aprirsi verso la campagna, si attarda in un succedersi di orti e frutteti, arricchiti da capanni per attrezzi, alcuni dei quali negli ultimi tempi -siamo all’inizio dell’Ottocento- hanno quasi l’aria di case di villeggiatura. Non si comprenderebbe lo spirito del luogo, però, senza le rovine dell’anfiteatro romano, scavato nel calcare e assurto nei secoli al rango di fascinosa rovina, capace di parlare a quei non pochi abitanti di Stampace che sanno di latino e che leggono in quelle pietre il segno di un’antica grandezza. Ma l’impressione più forte viene dal verde degli alberi di ogni specie e dagli orti, che non ci sarebbero senza la cisterna dell’orto dei Capuccini, profonda trenta metri, e senza l’altra grande cisterna scavata nella roccia nel punto intorno al quale diversi decenni più tardi sorgerà l’orto botanico. C’è anche, nei pressi una “bellissima fontana d’acqua salmastra di cui si provvede la città.”
Palabanda, con i suoi orti, le sue verzure, e quel suo essere quasi campagna è parte integrante di Stampace, il quartiere che sorge ai piedi di Castello, dalla parte del bastione di Santa Croce. Scendere dal bastione di Santa Croce a Stampace è questione di un attimo. Eppure passata la Porta Reale che mette in comunicazione i due quartieri, si ha l’impressione di entrare in un mondo a parte. Stampace è nata nel XII secolo, al momento della prima fortificazione di Castello, raccogliendo artigiani e capimastri pisani. Poi è stata popolata da sardi. Il catalano Ramon Muntaner che all’inizio del XIV secolo partecipa all’assedio di Cagliari parla degli stampacini come della gente “più maledetta del mondo”. Scrive nella sua Cronica: “Non vi sono maggiori peccati che un uomo possa commettere che non siano stati commessi a Stampace…lì albergano orgoglio e arroganza.” Delle sue origini ha mantenuto la caratterizzazione artigiana, ma non mancano esponenti della borghesia delle professioni. Tra Cinque e Seicento, Stampace ha travolto le mura precarie che la chiudevano a sud-ovest e ha cominciato a espandersi. Modesto nelle costruzioni, il quartiere è tuttavia arioso. Gli stampacini del primo Ottocento, così come i loro antenati che si sono opposti ai catalani, hanno fama di spiriti liberi.
Questo è il punto: ancora nel 1812 di cui narriamo e che verrà ricordato per la devastante carestia -sino ai nostri giorni, quando si parla di fame, si dice sa famini de s’annu doxi)- gli stampacini si portano dietro la la nomea di rivoluzionari. Nel poco (quasi nulla) che si è scritto, nella memoria degli umili e dei colti, negli atti dei processi celebrati contro i rivoluzionari e conclusisi a volte con teste mozzate lasciate ciondolare dentro gabbie ad ammonimento di chi ancora covasse idee di rivolta, alcuni dei capitoli più mossi del triennio rivoluzionario 1793-96, sono raccontati come faccende stampacine. E’ di Stampace il popolano -tale rimane, nonostante il titolo di notaio- Vincenzo Sulis, che ha guidato quelli del suo quartiere in avventurose sortire guerrigliere contro i francesi. Ma li ha anche portati a far da pubblico nelle assemblee stamentarie, che sarebbero riservate a nobili, preti e notabili, e dove solo così, vociando e inneggiando ai suoi campioni, il popolo cagliaritano può aver parte attiva. Da Stampace è partita la rivolta popolare del 28 aprile 1794 e che ha portato allo “scommiato” dei piemontesi, come è stato da subito chiamato. Una strana parola “scommiato” , che sa commiato, di garbato congedo, ma poi c’è quella esse, che ci dice che i piemontesi sono stati cacciati. Certo, le maniere dei cagliaritani non sono brusche come quelle dei parigini nell’ ‘89, quanto piuttosto irridenti. L’immagine che le riassume è quella dei popolani, uomini e e donne, che mentre il vicerè Balbiano si sta imbarcando sulla nave che lo porterà in continente ballano sul molo il ballo tondo. Che poi un altro vicerè torni al posto di Balbiano dopo qualche mese, e che nel 1796 la “Sarda Rivoluzione” venga sconfitta dal voltafaccia della nobiltà sarda e che Giommaria Angioy finisca esule a Parigi, nulla toglie al fatto che il racconto di quel 28 aprile, nei diciotto anni che sono passati da allora, sia stato ripetuto mille volte, con mille varianti, fermo restando che gli stampacini quando li si provoca…
Possiamo ipotizzare che la memoria sia il combustibile che alimenta quella che chiameremo la “congiura di Palabanda”. Perché Palabanda, un po’ l’abbiamo capito: un luogo magico, né città né campagna, rovine, case di vacanza a un tiro di schioppo dal centro della città, un po’ come quando Gesù volendo andare a meditare nel deserto si trovava quello della Giudea appena fuori da Gerusalemme. Palabanda, mettiamola così, è un posto per meditare, e i “congiurati” hanno il vizio di meditare in gruppo. Lo fanno nella casa di Salvatore Cadeddu, “il quale -scriverà qualche decennio più tardi il canonico Spano - l’aveva adornata di sedili e altre comodità per ricrearsi. Quivi soleva trattenersi quotidianamente nelle ore d’ozio, dove correvano gli amici più cari che aveva, e distinti cittadini. All’ombra di due cipressi, che allora vi sorgevano, seduti tutti solevano biasimare gli atti del Governo e quindi meditavano di farlo crollare.” E’ questo l’inizio della “congiura”. O, forse, la “congiura” è soprattutto questo, meditare in gruppo di far crollare il Governo..
Trovarsi e discutere di politica, quindi, ma non solo questo. Per i “congiurati di Palabanda” la politica è anche azione, e poiché si considerano rivoluzionari, l’azione sarà rivoluzionaria. Ma quale rivoluzione è possibile per i nostri congiurati, nella Cagliari del 1812? Per tentare di rispondere a questa domanda occorre, prima di tutto fare la loro conoscenza.
Il capo è Salvatore Cadeddu, avvocato, sessantenne, che nella ‘Sarda Rivoluzione’ ha avuto un ruolo importante. Non solo è stato chiamato a far parte dello Stamento Reale ma ne è divenuto il portavoce, si direbbe oggi. Lo Stamento Reale è ritenuto meno influente di quello dei nobili e di quello del clero, ma essendo composto dai rappresentanti delle città regie è quello più proiettato verso il futuro, ammesso che le esangui borghesie cittadine sappiano aspirare a essere il futuro. Quella cagliaritana qualche prova di sé ha dato, prima rispondendo all’attacco francese poi nell’epico 28 aprile. Cadeddu, comunque, ne è l’esponente più autorevole.
Per capire cosa sa essere la borghesia cagliaritana si può partire dalla famiglia di Salvatore Cadeddu. Luigi e Gaetano, i figli più grandi, il primo delegato di giustizia, il secondo avvocato, parteciperanno tutti e due alla congiura, ma mentre il primo verrà preso e condannato a vent’anni di carcere, il secondo scamperà all’arresto, fuggendo in Corsica. Il fratello di Salvatore Cadeddu, Giovanni, è il tesoriere dell’Università di Cagliari, di cui il fratello è segretario. Parteciperà alla congiura e sarà tra gli arrestati, dopo il suo fallimento. Condannato al carcere a vita, morirà a La Maddalena nella Torre di Santo Stefano. Rimarrà fuori dalla congiura il terzo dei figli, Efisio, al quale i precedenti familiari non impediranno di diventare il presidente del Tribunale di Cagliari.
Ad osservare attraverso la famiglia Cadeddu la fisionomia della borghesia cagliaritana si capisce che sono due, soprattutto, le istituzioni che l’alimentano: il tribunale e l’Università. Quanto a Gaetano, il suo fortunato esilio disegna prospettive nuove e interessanti a quei non pochissimi giovani borghesi che, già da allora, vorrebbero fuggire da Cagliari.
Ci sono poi, in posizione tutt’altro che secondaria, il prete Gavino Muroni e la sua famiglia. Gavino Muroni è un vecchio prete bonorvese che, al momento della congiura, ha quasi settant’anni. Suo fratello Francesco Maria, anche lui prete, è stato un forte sostenitore di Giovanni Maria Angioy, lo ha aiutato nella presa di Sassari, ne ha condiviso la fuga. Quando è tornato in Sardegna, lo hanno messo in galera, dove è rimasto per diverso tempo. E’ morto qualche anno prima di Palabanda, nella pace del convento di San Pietro di Silki a Sassari.
Per i preti sardi, la rivoluzione è un vizio: sono in tanti quelli che appoggiano Angioy e non sono pochi quelli che in un modo o nell’altro parteciperanno alla congiura. Per Gavino Muroni, è anche un vizio di famiglia, la rivoluzione, visto che gli altri due suoi fratelli, Pietro, di professione agricoltore, e Salvatore, di professione speziale, li troviamo tutti e due prima a fianco di Giommaria Angioy, poi tra i congiurati di Palabanda. Quanto a Gavino, da cui siamo partiti per raccontare le avventurose vicende della famiglia Muroni, è sua la vita più avventurosa. A fianco di Angioy, dopo la sconfitta si fa quattordici mesi di galera a Cagliari. Confinato a Carloforte, non vi trova la pace: catturato dai corsari tunisini nel 1798 e ridotto in schiavitù a Tunisi, solo cinque anni dopo potrà tornare a Cagliari. Qui l’attende il domicilio coatto. Poi Palabanda e, dopo la scoperta della congiura, la fuga in Corsica, da dove, fatto avvertito dalle precedenti esperienze, non vorrà più tornare in Sardegna.
Di come i preti sardi mostrino una spiccata propensione rivoluzionaria, si è già detto. Bisogna precisare però che quelli che hanno parteggiato per Angioy, sono preti particolarmente vicini al popolo. In alto, invece, vescovi, arcipreti e arcivescovi sono degli specchiati reazionari. Ad essere generosi, se ne può individuare qualcuno meno reazionario di altri. Osserviamo in azione due grandi clan familiari, quello dei Cadeddu e quello dei Muroni. Tracce di una società di antico regime, verrebbe da osservare, se non fosse che questi clan si battono per idee tutt’altro che di antico regime.
C’è poi, che partecipa alle riunioni a casa di Salvatore Cadeddu, un gruppo di artigiani tra cui spiccano per entusiasmo rivoluzionario Raimondo Sorgia e Giovanni Putzolu. Arrestati, verranno anche loro impiccati come Salvatore Cadeddu. Il pescatore Ignazio Fanni, verrà condannato a morte in contumacia. Il panettiere Giacomo Floris, verrà condannato all’ergastolo e morirà in carcere.
Quella che autorità politiche e magistrati chiameranno, scopertala, “congiura di Palabanda” altro non è che un progetto di ripetere, a diciotto anni di distanza, l’eroica giornata del 28 aprile 1794, quella dello “scommiato” dei piemontesi. Allora gli stampacini poggiarono lunghe scale sulle mura del Balice ed entrarono a Castello, arrivando sino al palazzo del viceré. Questa volta, i cospiratori contano sulla complicità di chi nella notte tra il 30 e il 31 ottobre aprirà loro la porta di Sant’Agostino, che conduce a Marina. Da qui, attraverso il passaggio di Santa Chiara, arriveranno a Castello. Tra i loro obiettivi, sembra esserci quello di arrestare Giacomo Pes di Villamarina, che si è segnalato per la burocratica ferocia con cui, prima da comandante della Piazza di Sassari poi da Generale delle Armi del Regno, ha represso ogni forma, anche puramente teorica, di opposizione. Attualmente è ministro di Polizia. Pes di Villamarina è amico di Carlo Felice e sarà, a “congiura” scoperta, la punta di diamante della repressione. Ciò che gli varrà qualche anno più tardi, l’incarico interinale di vicerè. Il collare dell’Annunziata, che riceverà a fine carriera, è un benefit accessorio.
Insomma il progetto prevede un’insurrezione in piena regola, accesa da una agguerrita avanguardia ma a cui, come nel 28 aprile, si unirà il popolo cagliaritano. C’è anche un versante militare del progetto, che prevede l’acquisto di armi con i fondi messi a disposizione da un ricco commerciante ma soprattutto la partecipazione dei soldati del battaglione della Reale Marina e di reclute di recente arrivate dalla Spagna. In Spagna, a Cadice per l’esattezza, qualche mese prima, nel marzo del 1812, le Cortes spagnole hanno approvato una costituzione liberale che avrà una larga popolarità in Europa e sarà il modello di quella concessa da Carlo Alberto nel 1821. L’indizio è forse flebile ma non è impensabile che “la congiura di Palabanda”, come abbiamo visto per molti versi rivolta all’indietro, rappresenti allo stesso tempo un’anticipazione dei movimenti costituzionalisti e liberali che infiammeranno l’Italia nel 1821.
Quali che siano le intenzioni e i piani, le cose vanno storte, come in un modo o nell’altro capita quasi sempre alle rivoluzioni. Quella in oggetto prevede un luogo in cui radunarsi all’ora X. E’ la sera del 30 di ottobre e un’ottantina di persone si ritrovano, come d’accordi, nei pressi del convento dei Carmelitani, tra Marina e Stampace, in un terreno di proprietà di uno dei cospiratori, Giacomo Floris. E’ lui stesso a lasciare il gruppo per raggiungere i compagni che, nel frattempo, dovrebbero essersi radunati a Marina. Per strada viene fermato da un gruppo di soldati che gli chiedo cosa ci faccia a quell’ora per strada. Lui farfuglia qualcosa e viene lasciato andare, ma si è fatto l’idea che le autorità sanno tutto e i soldati pattugliano la città per colpire i congiurati al primo accenno di rivolta. Torna indietro e “contrordine compagni”, la rivoluzione è rimandata.
I “congiurati” in attesa dentro Marina per un po’ hanno atteso, poi si sono decisi anche loro ad inviare uno di loro, il sarto Giovanni Putzolu, per capire cosa stia avvenendo. Sta avvenendo, in effetti, che le autorità -e in particolare l’avvocato del Fisco Raimondo Garau- più che sospettare sanno le intenzioni dei rivoltosi e Villamarina, per quanto all’inizio incredulo, ha ordinato alle sue pattuglie di vigilare e controllare. Lui stesso, dall’alto delle mura di Castello, osserva e sovrintende alle operazioni. Il sarto Putzolu, in avanscoperta, scorge a un certo punto Villamarina, sceso da Castello a controllare da vicino le operazioni. Putzolu vorrebbe sparargli, così che almeno uno degli obiettivi della rivolta sia raggiunto, anche se nei modi del tirannicidio. I suoi amici, lo fermano in tempo.
La ritirata è generale, nessuno crede ci siano le condizioni per realizzare i piani originari. In realtà, non ci sono le condizione per fare nulla. L’unica scelta possibile è tra il rifugiarsi nelle proprie case, sperando che la repressione non scatti. O invece scappare, sapendo che invece la repressione, come è sempre avvenuto negli ultimi quindici anni, non solo scatterà ma sarà brutale.
Comunque, impiega qualche giorno a mettersi in moto, consentendo ad alcuni che hanno visto giusto sulle intenzioni delle autorità di scappare. I primi arresti furono quelli di Antonio Massa Murroni, Giovanni Putzolu, Giacomo Floris, Raimondo Sorgia, che già conosciamo. Giovanni Cadeddu, fratello del capo della rivolta, e il figlio di quest’ultimo Luigi vengono arrestati in dicembre.
Quanto a Salvatore Cadeddu, è indeciso. La sua scelta sta a metà tra lo stare a casa sua ad attendere l’arresto e darsi alla fuga. Decide di rifugiarsi in una sua proprietà lungo la costa sulcitana, di fronte all’isola di San Pietro. Quando Villamarina lo scova e lo fa venire a prendere sono passati sette mesi dal fallito colpo di mano e la macchina delle indagini -che poco si distingue da quella della repressione- è già in moto. Tra i giudici della Reale Udienza incaricati della istruttoria vi sono Raffaele Valentino e Costantino Musio. Il primo è imparentato con quel Giuseppe Valentino che ha solida fama di boia, avendo fatto impiccare negli anni precedenti un certo numero di protagonisti della ‘Sarda Rivoluzione’. Il secondo, col beneplacito di Carlo Felice, si avvia a diventare il più autorevole giurista sardo della sua epoca. Costoro istruiscono ma è un altro collegio, sempre espresso dalla Reale Udienza, ad emettere la sentenza, che è -si fa per dire- all’altezza delle premesse. Otto le condanne a morte, di cui tre eseguite e cinque in contumacia. Due le condanne all’ergastolo. Salvatore Cadeddu è impiccato il 2 di settembre 1813, il suo corpo bruciato e le sue ceneri sparse al vento.
Già dopo i primi arresti, dopo le prime confessioni -fa poca differenza per i magistrati che siano spontanee o estorte con la tortura- si diffondono voci in città che dietro i “congiurati” ci sia uno dei due partiti di corte. Quale è facile da capire, visto che è il partito del viceré Carlo Felice ad atteggiarsi ad amico dei sardi. La qual cosa significa solo che attorno a Carlo Felice ci sono più nobili sardi di quanti ce ne siano attorno a suo fratello Vittorio Emanuele I, il re, che dal 1807 risiede più o meno stabilmente in Sardegna. A dar retta a queste voci, Palabanda sarebbe in effetti una congiura in piena regola. Anche se neppure le voci sanno dire se sia stato Carlo Felige a cercare di strumentalizzare la “congiura”, o i “congiurati” a pensare di utilizzare a loro vantaggio i contrasti tra il re e suo fratello. Di tutto questo è certo che si parli durante il processo ai congiurati. Peccato però che gli atti del processo finirono nelle mani di Villamarina, i cui eredi riuscirono poi a farli scomparire.
Una storia maledetta quella di Palabanda, che però vogliamo concludere con il racconto di una esistenza che la repressione non riuscì a stroncare. Quella di Gaetano Cadeddu, figlio di Salvatore, che dopo aver partecipato alla rivolta ed essersi rifugiato col padre nel Sulcis, riesce a fuggire in Corsica. Va a risiedere ad Ajaccio, dove ottiene la protezione di Napoleone. E’ con lui a Waterloo, dove, come direttore delle ambulanze, si guadagna la Legion d’onore. Quando Napoleone abdica, lo segue prima all’Elba poi nell’avventura dei Cento Giorni. Sconfitto definitivamente Napoleone, torna in Corsica, ma per qualche tempo è costretto a darsi alla macchia. Tornato in Toscana, Gaetano, che ha fatto a suo tempo studi giuridici, si laurea in Medicina. Eserciterà come medico in nord Africa, prima ad Algeri, poi a Tunisi, a Sfax e di nuovo a Tunisi, come medico capo dei reggimenti del bey. In tutti questi anni tornò solo una volta a Cagliari, per un breve soggiorno.
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