Carlo Dore jr.
Questa storia ha inizio in una fredda sera del gennaio del 1994, in un Paese squassato dalle bombe, dilaniato dal morso di una crisi economica senza precedenti, oppresso dal collasso di un sistema corruttivo destinato a travolgere, nel suo rapido agonizzare, tutti gli apparentemente intoccabili depositari dell’assetto di potere benedetto dall’ombra del muro di Berlino. Ha inizio nel momento in cui un imprenditore milanese con la passione per le tv, il calcio, le tombe egizie, gli stallieri siciliani e le ballerine del drive in decideva di “scendere in campo” alla ricerca del suo personalissimo “miracolo italiano”.
Ripercorrendo oggi i fotogrammi del primo dei tanti videomessaggi con cui il Cavaliere ha scandito il ventennio del suo sultanato, si comprende come, in quella sera di gennaio, non si consumava solo il rito fondativo del regime mascherato destinato a far retrocedere l’Italia, tra i sorrisi al vetriolo dei leader di tutta Europa, alla triste condizione di “stato semi libero”. No, quella sera accadeva qualcosa di peggio: quella sera si completava un processo degenerativo già avviato durante la grandeur di Bettino Craxi, il processo volto alla trasformazione della realtà “partito” da soggetto collettivo in strumento utile ad assecondare la voluntas dell’uomo solo al comando.
Insomma, un nuovo fantasma iniziava a prendere possesso della Penisola: il fantasma del “partito personale”, mostro di ingegneria politica elaborato al chiuso degli uffici di Publitalia. Le articolazioni proprie dei partiti tradizionali venivano spazzate via in un battito di ciglia, e con esse l’ambizione degli iscritti di concorrere, attraverso il partito, a determinare con metodo democratico la politica nazionale. Il partito cambia pelle: dismette la sua funzione di luogo di elaborazione programmatica e di centro di selezione della classe dirigente, per assumere quella di megafono delle decisioni del Capo, trovando la propria ragion d’essere esclusivamente nella fidelizzazione del popolo al leader. Nome, simbolo, candidature, esclusioni: ovunque è il marchio del Capo, quasi a configurare il partito quale mera propagazione dell’Io fondante.
La risposta delle opposizioni al dilagare del “partito personale” non si è però tradotta in una strenua difesa della partecipazione collettiva, nella riaffermazione di progetti politici di ampio respiro: questa reazione si è paradossalmente tradotta nella ricerca di una semplificazione del sistema derivante dalla creazione di nuovi partiti personali, nel tentativo di contrapporre alla leadership economica di Berlusconi la leadership etica, morale, moralistica o protestatoria di altri personaggi di riferimento.
In questa prospettiva, ecco sorgere il PD di Veltroni, contenitore antiideologico archiviato grazie alla svolta socialdemocratica di Bersani; ecco fiorire e sfiorire SEL, legata a doppio filo alle sorti della narrazione vendoliana; ecco incedere prepotente IDV, la cui vocazione moralizzatrice ha ben presto perso vigore dinanzi alla gestione familista ed egoratica imposta da Di Pietro; ecco apparire e scomparire la rottamazione di Renzi, ultimo prodotto della politica basata sul fascino del One man show.
Ma a vent’anni di distanza da quella notte di gennaio, la parabola del partito personale sembra avere iniziato la sua parabola discendente: l’implosione della stella berlusconiana ha trascinato nel suo declino quel che resta IDV - incapace per sua natura di trasformare la protesta in proposta -, mentre il fuoco innovatore che aveva animato Vendola e Renzi si affievolisce per la mancanza di un progetto degno di tale nome. A vent’anni di distanza da quella notte di gennaio, un clamoroso vuoto di rappresentanza pone di fatto la politica italiana dinanzi ad un bivio: abbandonarsi al nichilismo telematico di Grillo (e passare dal partito personale-reale ad un partito personale-virtuale, attraverso l’autodafè all’impalpabile guru di internet che riduce la partecipazione ad un semplice “click”) o tentare l’avventura del ritorno al tanto aberrato modello del “partito pesante”, quello delle sezioni e dei dibattiti, della lotta politica concepita come battaglia ideale e della selezione della classe dirigente basata sulla concreta valutazione dell’impegno di militanza. Tentare, insomma, l’avventura del ritorno alla “concezione costituzionale” del partito come strumento utile ai cittadini per concorrere con metodo democratico alla vita politica del Paese: un ritorno alla Costituzione per chiudere, una volta per sempre, la parabola del partito personale.
Da B. a Di Pietro: la parabola del “partito personale”
15 Novembre 2012
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