Francesco Cocco
Non c’è dubbio che quest’ultimo ventennio di vita politica è segnato da un leaderismo rovinoso. Rovinoso sia per i partiti che si sono adagiati su questa formula organizzativa sia per la società civile e le istituzioni nel loro complesso.
L’attuale crisi dei partiti, ispirati a questa formula, lo attesta con palmare evidenza. Si ponga mente a quel che sta accadendo nel PDL. In questa legislatura aveva ottenuto una maggioranza schiacciante. Il successo si ispirava ad un leader salvifico: il grande imprenditore che ci avrebbe “reso tutti più ricchi”. Siamo enormemente più poveri di 20 anni fà o se volete anche di quattro anni fà. Il leader carismatico ci ha reso più poveri non solo sul piano economico ma quel che è ancora più grave, sul piano etico-sociale. Ci ha impoverito nello spirito pubblico, e quindi più disgregati e conseguentemente meno capaci di affrontare le grandi difficoltà del tempo presente. Persino gran parte dei suoi cortigiani se ne stanno rendendo conto. Di qui le contestazioni, la messa in discussione della sua leadership, il tentativo di darsi una nuova organizzazione che cominci a superare la formula del leader monocratico.
Discorso analogo per l’ I.d.V. Anche questo partito o movimento (non interessa la definizione), che nel 2008 aveva ottenuto un grande successo elettorale, oggi si è ridotto a non avere neppure i numeri alla Camera per formare un gruppo. Il capo carismatico (“il magistrato più amato dagli italiani”, come un quarto di secolo fa lo definivano i mass-media) è messo in discussione nel suo stesso partito per una direzione autoritaria e non sempre trasparente.
Per altro verso noi Sardi ben conosciamo i lati negativi delle direzioni monocratiche. Anche in quel caso il capo carismatico doveva risolvere i problemi dell’Isola affidandosi alle sue virtù e soprattutto all’ossequio obbediente dei suoi cortigiani. Quale sia stato l’esito negativo di quell’esperienza è sotto gli occhi di tutti. Né ha alcun senso tornarci dopo le tante riflessioni che questo blog vi ha dedicato.
Alcuni decenni or sono la vita dei partiti era partecipata. Questo soprattutto nei partiti della sinistra. Le decisioni venivano prese a livello di base. Quando così non era, dalla base dovevano essere ratificate. E talvolta venivano bocciate. Mi è capitato di partecipare a riunioni di organismi dirigenti del PCI in cui vennero respinte proposte avanzate dalla segreteria regionale. A formularle era stato un dirigente del livello di Renzo Laconi. Non dirigenti improvvisati, ma personalità autorevoli che avevano dato prova di grandi capacità quanto ad intelligenza politica e a tenacia.
Nella cosiddetta Prima Repubblica, tanto bistrattati nei discorsi degli artefici degli avventurismi presenti, gli iscritti partecipavano effettivamente alla vita ed alle decisioni del loro partito e la dirigenza ne era condizionata, Questo non vuol dire che non vi fossero limiti da superare ma porvi rimedio non comportava precipitarsi in un leaderismo sciocco e servile.
Il rimedio non può certo essere oggi un ritorno al “buon tempo antico” anche perché il tempo antico non sempre era “buono” Ma non c’è dubbio che se non si torna alla partecipazione nella decisioni politiche è difficile uscire dal marasma presente.
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