Francesco Paternò
Il fatto della settimana è certo la rielezione di Obama alla Casa bianca. E’ una buona notizia, ma tornando a Washington, per il presidente rieletto non ci sono solo rose e fiori, deve affrontare la difficile questione fiscale. E per di più con la Camera a maggioranza repubblicana. Ecco sulla questione una riflessione da Il Manifesto del 9 scorso.
Prima missione del presidente: riforma fiscale entro dicembre, o gli Usa precipitano.
Seduto sul ciglio di quel che tradotto suona come burrone fiscale, fiscal cliff, Barack Obama è tornato al lavoro alla Casa Bianca. Oltre a cambiare squadra di governo, compreso il posto chiave del segretario al Tesoro, il presidente dovrà far cambiare atteggiamento ai repubblicani su questioni cruciali per il paese, come il riequilibrio del deficit pubblico. La sua speranza è che la sconfitta elettorale inflitta a Mitt Romney induca i repubblicani a mettere da parte ostruzionismi e veti per salvare tutti insieme - come ha detto nel suo primo discorso a Chicago da rieletto - l’America.
Che oggi sta appunto sul ciglio di un precipizio fiscale, una sorta di apocalisse che - se le cose resteranno paralizzate - investirà il paese dal primo giorno del 2013, riportandolo in recessione e, a seguire, buona parte del resto del mondo.
Benché il voto abbia confermato una pericolosa spaccatura nel bilanciamento dei poteri per i four more years, con il Senato a maggioranza democratica e la Camera controllata dai repubblicani, Obama sembra aver incassato un ramoscello d’ulivo da parte degli avversari. John Boehner, lo speaker repubblicano della Camera, ha accolto a Washington il presidente con parole apparentemente concilianti: «E’ il suo momento, presidente. Siamo pronti a essere guidati, non come Democratici o Repubblicani, ma come americani». E un passo analogo verso l’opposizione è stato fatto da Harry Reid, il capo dei senatori democratici, che rivolto agli avversari ha detto «meglio ballare che combattere». Essendo un ex pugile, la sua affermazione potrebbe avere un peso specifico politicamente pesante.
Ieri sera, a tre quarti di seduta, la borsa di Wall Street mostrava di essere ancora piuttosto infastidita dall’approssimarsi del fiscal cliff, con perdite intorno al mezzo punto, dopo il -2,4% del giorno precedente, sull’onda della minaccia dell’agenzia di rating Fitch di declassare l’America se il rieletto non rimetterà subito a posto la dissestata politica fiscale del paese.
Il fiscal cliff nasce dallo scontro frontale dell’Amministrazione Obama dell’estate del 2011 prima contro il declassamento del rating da parte di Standard&Poor’s e poi contro la minaccia dei repubblicani di non votare l’innalzamento del tetto del debito pubblico, che avrebbe portato tecnicamente in default il Tesoro americano, con stop a pagamenti e all’erogazione di molti servizi pubblici.
Per uscire dall’impasse del ricatto, la Casa Bianca fece passare un piano di riequilibrio dei conti basato su tagli draconiani quanto indigesti per tutti, con l’obiettivo dichiarato di costringere democratici e repubblicani a trovare un accordo. Per i democratici, il piano prevedeva - e appunto prevede dall’1 gennaio 2013 se le cose non cambieranno - tagli pesantissimi ai servizi sociali; per i repubblicani, l’aumento delle imposte per i ricchi e tagli all’industria della difesa. Un incubo per entrambi, anche se, come effetto immediato, le entrate fiscali della prima potenza mondiale aumenterebbero così di quasi il 20 per cento. Argomenti bollenti quanti ignorati sia da Obama che da Romney nel primo dibattito elettorale in tv.
Ma sarebbe una guerra in casa. Nel precipizio finirebbero gli sgravi fiscali di George Bush per i più abbienti e quelli per i redditi medio-bassi approvati da Obama due anni fa. L’impatto sarebbe devastante su una famiglia media: scatterebbe, è stato calcolato, un aumento delle imposte di 3.500 dollari l’anno e una diminuzione del reddito di oltre il 6%.
Le conseguenze sono immaginabili: meno consumi e ritorno alla recessione, in un paese che vive una ripresa con ancora alti tassi di disoccupazione. Dentro il burrone, risalirebbe anche il dato dei non occupati, schizzando al 9% nel 2013 (dal 7,8%), più o meno altri 2 milioni di persone: i tagli alla spesa pubblica in un decennio raggiungerebbero i 1.200 miliardi di dollari, con botte da orbi anche alle imprese dei super ricchi (gli unici ai quali non cambierebbe la misera aliquota del 15%, come per Romney), mentre in fumo finirebbe circa il 4% del pil.
Non a caso, Obama ha evitato di parlare tornando a casa. Nessuna dichiarazione alla stampa sull’Air Force One, nessuna dichiarazione una volta alla Casa Bianca. Solo un occhio alla nuova tempesta sulla costa orientale e un altro al fiscal cliff, una tempesta troppo perfetta per essere vera.
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